La pitturessa: intervista alla regista Fabiana Sargentini

Attraverso il racconto del suo ultimo lavoro, la documentarista Fabiana Sargentini ci ha parlato della sua idea di cinema del reale. Il film è in sala da ieri

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BANDO BORSE DI STUDIO IN CRITICA, SCENEGGIATURA, FILMMAKING

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La pitturessa, nuovo film della documentarista italiana Fabiana Sargentini, è al cinema. Il film, distribuito da Lo Scrittoio, ricostruisce la storia di Anna Paparatti, artista che ha animato il sottobosco delle avanguardie romane anni ’60 e ’70 e madre della regista. Un’opera delicata di circa 80 minuti che tuttavia, per ammissione della sua stessa autrice, ha richiesto “un lavoro di montaggio intenso, lungo tre mesi, necessario a soppesare e bilanciare tantissimi elementi”.

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Abbiamo intervistato in esclusiva Fabiana Sargentini per farci raccontare qualcosa in più di questo suo nuovo progetto.

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Ci puoi raccontare un la genesi di La pitturessa? Quando hai iniziato a pensare lo sviluppo di questo tuo ultimo progetto?

Io nel 2021 ho visto accadere a mia madre un evento praticamente da favola, qualcosa che non sembrava reale. Mia madre nel maggio 2021 partecipa a una piccola mostra in una galleria che si chiama EDDart, con alcuni quadri che lei aveva realizzato prima della mia nascita, negli anni 60, quando era molto giovane. Questi quadri erano stati appesi nel nostro ingresso sotto gli occhi di tutti e quella è stata una casa d’arte in cui sono passati critici, artisti, giornalisti, tantissime persone, per via del fatto che mio padre aveva una galleria d’arte negli anni 60, 70 e 80 molto rinomata, molto fervente. Quindi questi quadri erano sotto gli occhi di tutti, eppure nessuno li aveva visti davvero.

Poi ecco arrivare questa collettiva, che era una collettiva dedicata ad artisti che avevano elaborato opere negli anni 60 e 70, tra cui nomi molto grossi come ad esempio Pino Pascali; ragion per cui mia mamma era una specie di piccola perla nascosta. Tra i collezionisti di questa galleria c’era però Maria Grazia Chiuri, la direttrice creativa di Dior, che, dopo aver visto la mostra non ancora montata e con i quadri ancora per terra, si è innamorata dei lavori di mia madre e ha voluto conoscerla. Il loro incontro è stato magico tanto che Chiuri le ha commissionato la scenografia della sfilata a Parigi di Dior.

Questa cosa è successa a mia mamma all’età di 85 anni; lei che era sempre stata un’artista che, pur continuando a lavorare con costanza, aveva esposto pochissimo, era sempre rimasta un po’ nell’ombra. Ragion per cui questo evento era talmente straordinario che io, in quanto documentarista che già aveva realizzato un film su suo padre, mi sono detta che dovevo fare qualcosa, dovevo raccontarlo.

A un certo punto del film Piero Pizzi Cannella dice che l’artista secondo lui è qualcuno che convive con un’ossessione. Tu in quanto artista riconosci una tua ossessione o se preferisci un fil rouge che lega le tue opere, qualcosa a cui ritorni costantemente? 

Assolutamente sì, in primo luogo direi le relazioni umane, anche e sopratutto familiari. In questo momento sto cercando di scrivere un film sul passaggio dell’adolescenza di mio figlio e su quanto la vita del mio figlio adolescente si ripercuote sulla mia di adulto e di genitore. Le relazioni umane e familiari d’altronde definiscono le persone e hanno un peso nel modo di vivere di ciascuno. In Sono incinta del 2003 chiedevo agli uomini come avevano reagito quando una donna gli aveva detto di essere incinta. Poi ho realizzato Di madre in figlia che era una ricerca di un fil rouge tra le donne di una stessa famiglia, cioè il racconto di quanto una figlia possa somigliare alla propria madre. Io per esempio da bambina ero identica a mio padre, ero tale e quale; dicevano nei negozi che avevo “staccato la testa al padre”. Poi a 40 anni ho cominciato a somigliare a mia mamma, e le persone hanno inziato a farmelo notare.

Parliamo spesso della difficoltà di dare una definizione univoca al cosiddetto cinema del reale. Tu come ti poni di fronte alla questione della rappresentazione del reale? 

Dunque a me sembra molto interessante e cruciale anche solo fare dei lavori di osservazione compiuta e ferma su dei soggetti o su qualcosa che accade. È chiaro che nel momento in cui tu metti un filtro, che è la macchina da presa, un po’ già stai intervenendo. E poi devo comunque dire che io, per esempio, anche nel film su mia madre alcune delle cose le ho “messe in scena”. Tu ricrei delle situazioni e in quel momento puoi scegliere se spingere un determinato elemento più sulla finzione o se al contrario, come piace a me, mantenere una verosimiglianza. Io ho messo mia mamma a camminare con mio figlio lungo il fiume e certo quella è una messa in scena nel senso che sono stata io a portarla là, però il fatto che loro camminino insieme e parlino è assolutamente verosimile e naturale e soprattuto produce un effetto.

Anche per quanto riguarda la sequenza in cui porto mia madre a compare dei nuovi colori non c’è praticamente nulla di scritto. L’unica cosa che ho fatto è stata far venire questo altro artista che si chiama Giancarlo Limoni che però è un frequentatore fisso del negozio, quindi di fatto potevamo averlo incontrato per caso. Per il resto noi siamo andati a cercare questi colori e basta; tanto che in quel momento lei è tornata veramente come un tempo, indomabile.

In ogni caso il film è di qualcuno, c’è sempre qualcuno che lo fa e lo firma e la chiave di lettura dipende da quella mano specifica. E Il documentario secondo me è anche veramente un cinema d’autore. E quest’autore lo senti, si deve sentire, altrimenti sarebbe tutto uguale.

Tengo tra l’altro a dire che io ho frequentato tantissimi registi negli anni, anche persone che sono diventate famose, e a mio parere il cinema italiano – dico italiano perché vivo questo cinema – ha una piccola pecca: c’è poco scambio. Nel senso che io mi ricordo che anni fa parlavo delle cose che volevo fare o delle idee che avevo e gli altri al contrario se le tenevano per sé.

Se io però penso ai grandi movimenti letterari e artistici dei primi del Novecento, penso a uno scambio tra persone creative che, oltre ad essere interessante, permetteva di crescere. A me piace il cinema proprio perchè è un’arte collettiva, nel senso che io il film lo disegno con il mio direttore della fotografia e gli do una struttura insieme al montatore; non sono mai sola e il contributo delle persone è cruciale, motivo per cui penso che sarebbe bello se ci fossero dei “cenacoli” in cui tutti si raccontassero.

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