MANGA/ANIME – Lupin III: la donna chiamata Fujiko Mine

Torna il ladro giapponese, con una nuova serie prequel che racconta la formazione della banda e diventa, nelle mani di uno dei nuovi talenti nipponici, una celebrazione della tradizione e un territorio di sperimentazioni visive in grado di esaltare l'aspetto grafico dell'avventura

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La fortuna pluridecennale di Lupin III, già affrontata in passato su questi spazi, è leggibile anche come un'eterna esplorazione delle dinamiche interne al “gruppo” del ladro giapponese: un'entità eterogenea e di estrazione varia, con i membri impegnati spesso a mettersi reciprocamente i bastoni fra le ruote, quasi a voler saggiare la forza dei rispettivi legami, che non a caso si rompono e si ricuciono senza tregua. Una girandola continua di tradimenti e rinnovate alleanze, insomma, vissute con la leggerezza dell'inevitabilità. A scorrere la lunga filmografia dei personaggi, si può infatti notare come il motore dell'impresa, furbescamente veicolato sempre dal tesoro da rubare, trovi i suoi continui cambi di marcia proprio nell'interazione fra il carattere solitario di Goemon, l'abilità silenziosa di Jigen, la noia di Lupin (che lo spinge all'azione per vincere l'immobilismo) e il fascino di Fujiko, senza dimenticare l'apporto dell'infaticabile “nemico” Zenigata.

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Dati simili presupposti, non stupirà notare come la quarta serie televisiva dedicata al ladro, realizzata nel 2012 a 28 anni dalla precedente, si ponga sostanzialmente come racconto d'origine, che faccia luce sugli eventi fondativi della banda. Il titolo La donna chiamata Fujiko Mine (in originale Mine Fujiko to iu onna) chiarisce immediatamente la prospettiva “al femminile” imposta dalla regista Sayo Yamamoto, fattasi notare con la serie Michiko e Hatchin e proveniente dalla scuderia di Shinichiro Watanabe, tanto che da Cowboy Bebop viene ripreso anche lo sceneggiatore Dai Sato, per scrivere alcune delle 13 puntate (in un curioso corto circuito dove il modello prende in prestito qualcosa dall'epigono). L'impianto generale si articola così attraverso una struttura corale, dove nessuno dei membri della squadra è il vero protagonista e le singole puntate vanno a costruire un affresco coeso, dando forma a una continuity interna via via sempre più serrata: la prospettiva offerta dalle imprese di Fujiko permette di scavare nel suo passato, nei primi incontri con Lupin, Jigen, Goemon e Zenigata, fino allo scontro con il Conte Almeida, che si rivelerà tanto il nemico principale quanto il custode dei segreti celati nel passato della ladra, e destinati a essere sciolti solo nel finale.

 

Riproponendo lo schema della fuga e del desiderio di autodeterminazione dei protagonisti di Michiko e Hatchin, la Yamamoto svela come la bidimensionalità dei caratteri principali trovi una sua complessità non solo nelle interazioni reciproche, ma anche nel sostanziale mistero che da sempre avvolge il personaggio di Fujiko, qui elevato a paradigma delle umane contraddizioni, ma anche a possibile cartina di tornasole per tutti gli spunti avventurosi e/o esistenziali della storia. Sin dai pittorici titoli di testa, infatti, si rimarca la natura poliforme di un personaggio che sembra trovare nel furto un appagamento fisico che diventa moderna forma di erotismo e seduzione, nel gioco di fascinazione e complicità che poi si va a stabilire con Lupin e gli altri comprimari. Il tono, non a caso, si fa più adulto del solito, con reiterate scene di nudo che però hanno poco del consueto fanservice e appaiono invece un tentativo di sbattere in faccia allo spettatore l'icona per poi concentrarsi sull'esplorazione dei suoi sentimenti. Anche per questo il tono prende un po' le distanze dalla spensieratezza tipica della saga, cui viene preferito un taglio più malinconico, quasi un'elegia per un'epopea così radicata nella profondità delle vite degli spettatori da ricondurre a una sorta di innocenza perduta.

 

Ciò che più conta, però, sono le possibilità stilistiche offerte da un materiale tanto ricco: l'approccio visivo opta per un ritorno alla matrice originaria del fumetto di Monkey Punch, dove il design si fa parecchio spigoloso e il tratto esalta la natura del lavoro manuale. Le immagini sono rozze, con segni calcati a riprodurre l'effetto della matita sul foglio, e descrivono un mondo contrastato, a colori ma idealmente ascrivibile alle dinamiche del bianco e nero, in grado perciò di esaltare una matrice fondamentalmente noir. L'animazione è ridotta quasi al minimo, non per limiti di budget, ma per riprodurre la sensazione di un fumetto semi-animato, come un continuo sfogliar di pagine su cui i personaggi si muovono come figurine iconiche, quasi un teatro di ombre all'orientale.

 

Una simile base, molto solida e determinata nei suoi elementi, permette poi i voli pindarici nel sogno e nell'immaginazione, con un taglio artistico e sperimentale che guarda al surrealismo e all'onirismo, con il tema reiterato del gufo che si collega alla sfera della chiaroveggenza e della comprensione della verità. A tratti sembra di essere finiti in un incubo istigato dalle visioni di David Lynch: i personaggi vengono pertanto sottoposti a una torsione in cui la sfida è tanto mantenere i propri tratti caratteristici, quanto adeguarsi a un tono così ondivago. Che poi è l'altra grande invenzione della saga, in perenne bilico fra l'assurdità quasi soprannaturale dei personaggi nel compiere le proprie imprese e mostrare le rispettive abilità (quella con la pistola di Jigen, con la spada di Goemon e con l'intelligenza di Lupin) e i continui ammiccamenti alla Storia, alla realtà e alla tradizione: oltre a Lupin che si richiama al ladro gentiluomo francese, infatti, non va dimenticato come lo stesso Goemon discenda da un personaggio realmente esistito, mentre Zenigata riprende Heiji Zenigata, celebre figura della letteratura poliziesca giapponese.

 

Di questo schema Fujiko è il fulcro, personaggio unico eppure cangiante, quasi a celebrare l'inafferrabilità dell'universo femminile, il dualismo fra romanticismo e avventura. La regista esalta la natura proteiforme del mondo in cui si muovono simili figure introducendo pure l'inedito personaggio di Oscar, assistente di Zenigata, innamorato dello stesso ispettore, e dalle spiccate tendenze al travestitismo, quasi una sorta di rimando alla complessità sessuale della più celebre Lady Oscar, che non a caso diventava paradigma della complessa realtà in cui agiva. Una scelta che rinsalda anche il legame con gli anni Settanta, con un modo più crudo e complesso di concepire l'animazione, chiamato in causa anche dall'ambientazione nel periodo della Guerra Fredda, e dunque in un momento apparentemente immobile nelle fazioni, ma magmatico per il continuo ribollire di fermenti al suo interno.

 

Alla fine si emerge dalla visione affascinati e anche abilmente riportati all'origine, ovvero al consolidato legame fra Lupin e la sua amata. Il taglio più sensuale e attento alle sperimentazioni visive consolida un successo destinato a ulteriori prosecuzioni: la prossima tappa è infatti il mediometraggio Jigen Daisuke no Bohyo (La lapide di Daisuke Jigen), che proseguirà la storia concentrandosi sulla formazione del legame tra Lupin e l'amico pistolero Jigen, mentre al cinema si attende la nuova versione Live Action di Ryuhei Kitamura. Perché la fortuna della saga prosegua e si rinnovi senza sosta.

 

Lupin III: La donna chiamata Fujiko Mine è attualmente in attesa di trasmissione su Italia 2, al momento è stato diffuso un solo trailer doppiato, visibile qui sotto (nel caso venga rimosso è visibile sul sito di Mediaset).

 

 

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