Men of Honor – L'onore degli uomini

Nella Logica del senso, Deleuze afferma che la forza del paradosso non consiste nell’essere contraddittorio, ma nella capacità di far assistere direttamente alla genesi della contraddizione. E il paradosso metafilmico rintracciabile nell’opera di Tillman si compone in buona parte proprio dell’esperienza di un “fieri” della visione e quindi dell’immagine. E’ bene anzitutto precisare che una “certa tendenza” del cinema americano di oggi (basti pensare a Regole d’onore, ma anche al significativo U-571) consiste nell’operare all’interno di esso un’interessante riflessione sull’operazione (post)modernista volta al recupero di un certo classicismo di fondo sia a livello formale che contenutistico. Ebbene, nell’opera in questione e nell’atto che la contraddistingue come modello cinematografico, si possono distinguere una coppia di cifrature capaci di produrre un duplice segno cinematografico che sfocia in un sublime paradosso. I due termini del binomio enunciato sono di carattere filmico (l’uno), e di carattere etico (l’altro). Nel primo ci è dato rintracciare una riflessione sulla struttura del racconto di formazione di chiare ascendenze letterarie (infanzia del protagonista, descrizione breve, ma intensa della sua adolescenza e racconto esteso degli eventi che costellano la sua vita d’adulto) e su un recupero stavolta tutto cinematografico di certi “topoi” presenti nell’opera di grandi classici come Hawks, Walsh e Ford (spietatezza della vita passata sotto le armi, ascesa del protagonista costellata da numerose peripezie). Nel secondo invece si oltrepassa la soglia del filmico, per avventurarsi in una dimensione morale (o meglio moraleggiante) in cui a prevalere è chiaramente l’intento predicatorio e didattico. Ed è qui che il film convince meno, soprattutto per una certa propensione ad un enfasi declamatoria. Soffermandosi comunque sul primo termine del binomio, non si può non apprezzare il gusto retrò per un racconto lineare, pieno zeppo di eventi che risaltano in tutta la loro visibilità che non conosce ellissi, e capace soprattutto di far scivolare il piano della visione all’interno di una fruizione più che godibile di certi codici narrativi intramontabili. Proprio a partire dalla constatazione di ciò, ci è possibile spiegare l’esistenza del paradosso cui si è accennato inizialmente. L’opera di Tillman può infatti essere interpretata come omaggio\citazione\calco di un cinema “passato”, ma al tempo stesso pronto a ribadire una sua presenza centrale e quindi attuale all’interno del tessuto diegetico. Da qui una presenza\assenza ribadita da sguardi, da ombre di immagini che furono (l’inserto centrale nel bar in cui i due protagonisti si sfidano ad una gara di resistenza rimanda direttamente ad una sequenza simile di Da qui all’eternità), da tensioni emotive che sfociano quasi sempre in un trionfo dell’appianamento gestuale (la meccanicità risolutiva e per certi versi statica ad esempio del saluto finale tra De Niro e Cuba Gooding). Ed è proprio questo guardare al cinema dei padri – scandito dal binomio etico/cinematografico di cui prima – che si trasforma in un guardare-attraverso il cinema che si sta facendo, realizzando un paradosso che è poi quello dell’esperienza tout court.
Titolo originale: Men of Honor
Regia: George Tillman jr.
Sceneggiatura: Scott Marshall Smith
Fotografia: Anthony B. Richmond
Montaggio: John Carter, Dirk Westervelt
Musica: Mark Isham
Scenografia: Leslie Dilley
Costumi: Salvator Pérez jr.
Interpreti: Robert De Niro (Leslie W. “Billy” Sunday), Cuba Gooding jr. (Carl Brashear), Charlize Theron (Gwen Sunday), Aunjanue Ellis (jo), Hal Holbrook (Mr. Pappy), Michael Rapaport (Snowhill), Powers Boothe (capitano Pullman), David Keith (capitano Hartigan), Holt McCallany (Rourke), Joshua Leonard (Isert)
Produzione: Robert Teitel, Bill Badalato per Fox 2000 Pictures/State Street Pictures
Distribuzione: Twentieth Century Fox
Durata: 128’
Origine: Usa, 2000

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