Montanario, di Eleonora Mastropietro

Presentato all’Ischia Film Festival, dopo un’anteprima al Trento Film Festival, il documentario si concentra sulla funivia del Monte Bianco, per raccontare un’appropriazione turistica dei luoghi

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Come già era evidente in Storia dal qui, il cinema di Eleonora Mastropietro è fatto innanzitutto di luoghi. Esplora geografie, modi di vivere e di abitare, ragiona sui rapporti tra comunità e territorio. Ma questo approccio è, in verità, anche una maniera per misurare il tempo, le trasformazioni e le tendenze in prospettiva. Perché di ogni luogo si coglie anche la stratificazione più profonda dei cambiamenti morfologici e antropologici, a partire da vissuti individuali o esperienze collettive. Il viaggio ad Ascoli Satriano di Storia dal qui è punteggiato dai ricordi personali della regista, dai segni di una vicenda e di un archivio familiari. E nel raccontare una storia di emigrazione, testimonia anche la precaria sopravvivenza delle aeree interne, un’amara sensazione di spaesamento e il difficile tentativo di riconquistare un’appartenenza. Invece, in Montanario, lo sguardo di Eleonora Mastropietro si muove su una prospettiva più esterna, “ufficiale”. Gira sulla circonferenza, senza, apparentemente, puntare dritto al cuore. E così, se nel film precedente la sua voce fondava un racconto in prima persona, sorretto da tracce e motivi narrativi, seppur esili (lo scambio di lettere con l’amica di infanzia, la costruzione del ciuccio di San Potito), qui siamo sul piano della pura osservazione.

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Il panorama è quello del versante italiano del Monte Bianco. Un primo tratto di funivia fu iniziato nel 1941 e inaugurato nel 1947, dopo la guerra. Un terzo tratto, fino a Punta Helbronner, a 3462 metri, fu realizzato a partire dal 1954. Nel 2011 partono i lavori per la nuova funivia, che entra in funzione nel 2015 con il nome avveniristico di Skyway. È proprio intorno a questa struttura che Eleonora Mastropietro decide di filmare e di raccogliere materiale, lungo il corso di un anno, tra il 2018 e il 2019, poco prima delle chiusure a causa della pandemia. In qualche maniera, punta a descrivere un rapporto tra le innovazioni tecnologiche, segno dell’intervento umano, e l’imponenza solitaria dello scenario naturale. Per delineare un discorso sull’appropriazione turistica dei luoghi, sui cambiamenti profondi nel modo di vivere e “osservare” la montagna. In fondo, quasi tutte le persone incrociate tra gli impianti filmano e fotografano con lo smartphone, interpongono un filtro, sostituiscono all’esperienza diretta dell’osservazione repertori e gallerie di immagini, già pronte per essere catalogate e conservate a futura memoria. È il materiale di un archivio “impersonale”, orizzontale, che addomestica e “normalizza” il paesaggio, lo inquadra in una cornice standard, da ricordo preconfezionato.

A quest’immagine turistica, Eleonora Mastropietro contrappone quel misterioso bianco e nero dei filmati di repertorio, Ascensione al dente del gigante (1911) di Mario Piacenza, Punte d’acciaio nella fucina dei Grivel (1957), di Mario Fantin: riprese delle cime del massiccio del Monte Bianco, escursioni e scalate d’epoca. Quelle immagini, prima ancora di testimoniare un altro tempo, indicano una diversa possibilità di visione. Si aprono alla contemplazione, a una fascinazione inquieta, indefinita, fatta di bellezza, di minaccia e vertigine. Ed è la stessa disposizione che, in fondo, cerca Eleonora Mastropietro. Quando distoglie lo sguardo dai turisti che si affollano ai tornelli o che si adagiano mollemente al sole di montagna e occupano lo spazio appiattendone la profondità. Lì, in quei momenti in cui si concentra sugli spazi vuoti delle strutture, in cui indugia di notte tra gli ingranaggi degli impianti della funivia o si smarrisce tra le nebbie, il film entra in un’altra dimensione. Il paesaggio sembra aprirsi a un’ipotesi fantascientifica, come un portale magico che indichi altre traiettorie, sospese tra il sogno o una possibile epifania.

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