Niki, di Céline Sallette

Rompe la struttura del biopic nel modo di privilegiare i gesti, i tormenti e la creatività della sua protagonista. Un positivo esordio come regista per l’attrice francese. CANNES77. Un certain regard

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La prima idea di Niki è venuta a Céline Sallette dopo che ha visto un’intervista di Niki de Saint Phalle del 1965. L’attrice francese, che si è fatta conoscere con il ruolo di Clotilde in L’Apollonide di Bertrand Bonello ed è stata diretta, tra gli altri, da Costa-Gavras, Cédric Kahn, Jimenez, André Téchiné e da Ginevra Elkann in Magari, ha realizzato il suo primo film come regista con lo scopo di restituire la complessità della sua protagonista e soprattutto di sottolineare il fatto che era una figura in anticipo sui tempi. L’obiettivo è stato sostanzialmente raggiunto. Niki è infatti rompe la struttura del biopic. Prevale prima il corpo della storia. Inizia a Parigi nel 1952 quando l’artista si è trasferita a Parigi col marito e Laura, la figlia appena nata, da New York. Ma la presenza invadente della sua famiglia continua a tormentarla e i suoi ricordi rappresentano per lei un inferno. Riuscirà a trovare lo sfogo di questo doloroso tormento interiore nell’arte.

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Sallette lavora prima di tutto sul gesto della sua protagonista interpretata da Charlotte Le Bon che sembra idealmente averle trasferito l’ispirazione e l’energia del suo ottimo primo film come cineasta, Falcon Lake. Ma soprattutto l’attrice canadese le permette di lavorare sul fragile e precario equilibrio di Niki, mostrato già nella scena in cui nasconde i coltelli sotto il letto fino al ricovero nell’ospedale psichiatrico dove c’è la prima seduzione artistica quando vede un paziente che dipinge non solo con i pennelli ma anche con le mani. Sallette conserva la fisicità del processo creativo attraverso il contatto vivo con la materia (i colori, le tele che distrugge in un impeto di rabbia) che scorre in controcampo con la sua memoria dolorosa che rappresentano per lei un incubo ricorrente. Sallette non forza la mano anzi è molto rispettosa ma anche complice e determinata nel modo di rivelare questa cicatrice nella protagonista. Ciò si vede nei flashback inquietanti con Niki bambina, abbagliati da una luce infernale. In più trova anche una notevole somiglianza tra il suo personaggio e l’attrice. Nei suoi occhi c’è l’angoscia, la disperazione ma, contemporaneamente, anche le improvvise illuminazioni e le intuizioni artistiche che la portano in un universo a parte, proprio come Margaret Keane in Big Eyes. Come il film di Burton, anche Niki possiede questo doppio livello, esistenziale e creativo. Così, il primo piano di Charlotte Le Bon anche quando si guarda nello specchio rotto, nei suoi occhi già (molto) grandi, resta subito impresso nel suo alternato controluce.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3.5
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Il voto dei lettori
2 (1 voto)
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