Pacifiction, di Albert Serra

Il viaggio di Albert Serra in Polinesia è una deriva in Paradiso, dove a poco a poco emergono i segni apocalittici del mondo e della storia. In concorso a #Cannes2022

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Albert Serra si libera delle coordinate temporali, dei costumi, delle parrucche della Francia del Settecento di La mort de Louis XIV e di Liberté, per viaggiare alla volta della Polinesia francese. E sembra quasi ritrovare l’immaginario di Gauguin in fuga, alla scoperta di Tahiti, il paradiso aurorale di un mondo prima dell’inizio della Storia.  “Godo tutte le gioie della vita libera, animale e umana. Sfuggo alla fatica, penetro nella natura: con la certezza di un domani uguale al presente, così libero, così bello, la pace discende in me; mi evolvo normalmente e non ho più vane preoccupazioni”.

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È perfettamente logica, dunque, la rinuncia di Pacifiction a qualsiasi inseguimento affannoso di una temporalità conseguenziale. Proprio perché tutt’intorno è l’Eden, siamo nello spazio che precede il peccato e la caduta. La trama non è che un’infinita divagazione, un alto commissario del governo francese alle prese con una serie interminabile di appuntamenti, incontri, colloqui con personaggi di vario genere. Europei, polinesiani, politici, militari, gente comune. Un continuo discorrere senza un punto. Ma quando non c’è la possibilità racconto, molto spesso non resta che la contemplazione. E così, su tutto, trionfa l’immagine di una natura sublime.

Ma Serra sa benissimo che l’esperienza estetica e panica di un mondo incontaminato non è che la versione estrema di una sofisticazione intellettuale, l’ultima ipotesi d’evasione di una cultura ormai esausta, che ha già sperimentato la dissoluzione organica dei suoi simboli istituzionali e delle sue aspirazioni libertarie (o libertine). Cioè quella consunzione messa in mostra in La mort de Louis XIV e Liberté. Oltre la quale, non rimane che la constatazione di un mondo svuotato. Dove tutto ciò che nasce è già consumato. Dove anche la fascinazione esotica ha compiuto il breve passo per trasformarsi nella vacuità di un’esperienza turistica. Turismo elitario, ma pur sempre venduto a pacchetti. E quindi, tra le meraviglie del paesaggio, è tutto un pullulare di resort di lusso, di night club. Un paradiso da vacanzieri e da surfisti, in cui, tra le note dei Beach Boys, attendi l’ebbrezza della grande mareggiata. Che puntuale arriva, nella stupenda scena delle barche che cavalcano la cresta delle onde.

Rispetto a tutto questo, il protagonista, questo incredibile Benoît Magimel in libera decadenza fisica, col suo abito bianco, assomiglia a una specie di Fitzcarraldo stanco. Il residuo raffinato di un colonialismo decadente, fuori tempo massimo. La cui conversazione, arte intimamente politica, è diventata una digressione infinita, un flusso di pensieri, appunti, notazioni, umori. Una specie di monologo, visto che gli altri, molto spesso, non sembrano neanche capire davvero. E a poco a poco, si va quasi alla deriva. Che sia questo il Paradiso? Come in un esercizio estremo di liberazione cinematografica, avvertiamo la possibilità di perdere tempo, di staccarci dagli obblighi di una visione istituzionale, di uscire e entrare dal film, dalla sala. Anzi, nella accurata composizione delle sue immagini concluse, verrebbe quasi voglia di consumare il film a frammenti, magari su una spiaggia, distesi su una sdraio, con un cocktail in mano. Per capitare distrattamente tra le scene, sedersi ogni tanto ad ascoltare le farneticazioni di Magimel, all’ombra di una palma. Anche se, poi, ti rendi conto di tutti quei segni inquieti, di un sottofondo di mistero e complotto, che si nasconde sotto la superficie del mare, per emergere sul finale, in tutta la sua forma definita e minacciosa. Il tempo torna urgente e la storia si prepara a distruggere il paradiso. L’apocalisse definitiva della bellezza.

 

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
4.2
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Il voto dei lettori
5 (2 voti)
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