Patrice Chéreau. Nell'intimità del cinema

patrice chéreau

Chéreau pare aver sempre usato il cinema come mezzo esplorativo, per compensare l’inevitabile distanza scenica del teatro, suo grande amore e terreno di formazione. La sua macchina da presa mobile e nervosa non ha mai ceduto ai limiti imposti dai confini fisici, per raccontare attraverso la frenesia dei corpi il tormento di un desiderio inappagabile

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patrice chéreauPatrice Chéreau se ne è andato in silenzio, a 68 anni, per un cancro al polmone che non gli ha impedito di continuare fino all’ultimo a scrivere, dirigere, mettere in immagini un universo poetico refrattario ai larghi consensi, così duro nel chiamare a confronto lo spettatore con i suoi lati più oscuri, desideri inconsci o inconfessabili ricercati negli anfratti del corpo e dell’anima, con una macchina da presa mobile, nervosa, che sembrava non volersi mai fermare di fronte ai limiti imposti dai confini fisici.

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Vera figura di intellettuale, capace di spaziare fra prosa, lirica e cinema, (dove recita anche per Mann e Haneke), Chéreau pare aver sempre usato il cinema come mezzo conoscitivo ed esplorativo, per compensare l’inevitabile distanza scenica del teatro, suo grande amore e terreno di formazione.

 

 

intimacy - nell'intimitàL’omaggio più sincero è quello che gli ha tributato di getto il quotidiano francese Libération, che lo aveva intervistato più volte. Nel loro saluto lo chiamano fils de l’image, “figlio dell’immagine”, lui che, figlio di pittori, si era trovato a crescere e maturare espressivamente sempre nel solco di un’educazione visiva, pervenendo attraverso il disegno all’arte di faire des images, alla messa in scena teatrale a cui già da bambino si abituava traducendo in bozzetti scenici i racconti che leggeva.

Cresciuto ammirando le imponenti tele del Louvre (“ma il museo che conoscevo io, quello del Dopoguerra con i grandi Impressionisti, non esiste più dalla separazione con il D’Orsay” dirà malinconico) trova presto nel palcoscenico la sua vera casa: pupillo del grande compositore e direttore d’orchestra, precursore della minimal music, Pierre Boulez, riceve la consacrazione nel mondo della lirica dirigendo la Tetralogia di Wagner a Bayreuth dal 1976 al 1980.

 

 

son frèreMa è soprattutto l’incontro lavorativo con il drammaturgo Bernard-Marie Koltès, di cui cura le prime trasposizioni nella grande stagione del Theatre des Amandiers di Nanterre, a segnare Chéreau, che lo ricorderà con grande rispetto: "È stato una meteora che ha attraversato il nostro cielo con violenza in una grande solitudine di pensiero e con una forza incredibile alla quale, a volte, per me è stato difficile accedere".

 

Altra figura di grandissimo valore, portata via troppo presto dall’Aids sul finire degli anni Ottanta, l’autore di Nella solitudine dei campi di cotone sembra aver marcato a fondo con i suoi dialoghi ostili e spiazzanti la futura poetica dello Chéreau cineasta.

La sola frontiera che esiste – recita il prologo dell’opera – è quella tra venditore e cliente, ma è incerta, perché entrambi possiedono il desiderio e l’oggetto del desiderio, di volta in volta vuoto o sporgente, con meno ingiustizia di quella che c’è tra maschio e femmina tra gli uomini o gli animali”. Anche il cinema di Chéreau, dai primissimi lavori inediti in Italia fino all’ultimo Persécution, presentato in Concorso a Venezia 66, e accolto freddamente, a dimostrazione di una certa diffidenza nostrana verso questo autore invece amatissimo a Berlino – dove vince l’Orso d’oro con Intimacy e quello d’Argento con lo splendido Son frère – sposa la logica antinomica di Koltès.

 

Le sue coppie, di amanti o fratelli, vivono il sentimento come vuoto, mancanza di un qualcosa che l’altro sembra possedere, desiderio destinato a rimanere però inafferrabile, irraggiungibile. E allora i suoi personaggi finiscono con l’essere tutti degli hommes blessés, uomini feriti, avvolti nella loro ossessione, che li porta – dal Jay di Intimacy al Daniel di Persécution – a ripiegarsi su di sé, escludendo il mondo, la vita, evidentemente percepita, come in Koltès, come spazio puramente dialogico, diplomatico, volto a vendere tempo e illusione, mascherando la sostanziale crudeltà del mondo.

 

la regina margotEcco che Chéreau questo mondo esterno l’ha sempre escluso, tagliato fuori dalle sue inquadrature, riducendo sempre al limite gli spazi, ed esaltando così l’ottica desiderante dei suoi personaggi. Non solo diventando “il cineasta dei corpi”, com’è stato giustamente ricordato, per la fisicità irruente e vibrante dei suoi lavori, ma anche un cineasta degli sguardi, che più di ogni altra cosa definiscono il tormento dei suoi protagonisti.

Come quelli de La regina Margot, la sua opera cinematografica più monumentale, in cui rivivono i ricordi pittorici di un’infanzia passata ad osservare i quadri del Louvre, ma che si stacca di netto dal cinema in costume, solitamente votato ai grandi spazi, per la totale adesione ai volti dei personaggi, come nella magistrale sequenza all’interno dei giardini, in cui le relazioni tra una discinta Isabelle Adjani, Daniel Auteil, Miguel Bosè e un’ancora virginale Asia Argento vengono definite unicamente attraverso sguardi capaci di disegnare traiettorie erotiche e politiche.

Il cinema di Chéreau è racchiuso in questo movimento continuo e indagatorio dentro e fuori i corpi, spesso rivolti verso l’ignoto del fuori campo, come i personaggi dell’incipit di Son frère, mentre raccontano i viaggi sui traghetti e in particolare quello, avanti e indietro, verso Staten Island, quando durante la traversata appare “Manhattan, piena di luce, che avanza verso di te”: “Appena arrivato hai fatto il biglietto indietro e sei ripartito, perché l’interessante non era la Statua della libertà. Era tutto il resto”.

 

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