#Pesaro55 – Ainhoa, yo no soy esa, di Carolina Astudillo Muñoz

Ricostruire una memoria altrui sul limitare della tragedia umana, restituendo lo splendore che sembrava perduto.

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Ricostruire una memoria altrui, ma senza che questa divenga una pedante biografia, né che lo sia, a tutto tondo, almeno nelle intenzioni. È molto interessante e particolarmente efficace la narrazione che la regista cilena, che vive a Barcellona, fa di Ainhoa Mata Juanicotena, la cui vita scopre per caso, ma aiutata da una dovizia di materiali che sa usare con attenzione.
La protagonista del film è morta suicida e il fratello consegna all’autrice una quantità di diari, fotografie e filmati familiari in super 8 di Ainhoa per paura che finiscano dispersi in un qualsiasi mercatino delle pulci. La regista lavora su questi materiali e ricostruisce la vita di Ainhoa rivelandone tratti insospettabili gelosamente custoditi tra le righe dei suoi diari. È uno dei pregi del film quella della sua realtà replicata dai filmini, dalle

fotografie e dai diari sua origine che si trasformano in materia vivente. In questa splendida forma il film fa parte del programma Sguardi sul cinema spagnolo contemporaneo del Festival di Pesaro.
Le immagini di Carolina Astudillo Muñoz che in effetti appartengono all’oggetto della sua indagine, facendola rivivere, confermano, ove ce ne fosse ancora bisogno e non banalmente, la forza del cinema, il progressivo, incessante e per tratti misterioso, potere delle immagini di offrire una nuova vita, quasi una nuova possibilità. Il cinema così ricostruttivo di una vita, si ridefinisce anch’esso con tratti insospettati, attraverso una palingenesi che sembra doversi cogliere perfino nel suo significato filosofico di rinascita dopo la morte. Ainhoa che non conosciamo e che neppure la regista del film ha mai conosciuto, riappare e si manifesta attraverso i suoi diari, nella felice infanzia testimoniata da quelle immagini che la vedono crescere, poi meditativa e malinconica, appassionata di letture di diari di scrittrici suicide come Sylvia Plath o Virginia Woolf, ma anche di artiste vitali e combattive come Frida Khalo.
Carolina Astudillo riconduce il cinema ad una sua natura originaria e trasforma quello che chiamiamo cinema del reale in vibrante e attuale realtà. Senza enfasi Ainhoa, yo non soy esa ci dice quanto solo il cinema possa raccontare in una sorta di labile supremazia che però trova conferma proprio nell’operazione mediatica condotta dalla regista cilena. Il film, in questa prospettiva, restituisce vita ai suoi personaggi, istituendo al contempo tra le due donne un profondo e sincero rapporto che va al di là dell’opera, superando ogni altro interesse o finalità artistica e che nel film si risolve in una fugace sovrapposizione, in una tardiva e desolata sensazione di assenza.
È per queste ragioni che il titolo del film sembra volere, allo stesso momento, istituire e confermare il rapporto simbiotico, ma tenerlo anche a quella giusta distanza che lo fa diventare intimamente vissuto e osservato con sguardo oggettivo. Ainhoa diventa una specie di film manifesto, di quella faccia nascosta del cinema e della sua essenziale, ma complessa struttura che lo sorregge. In realtà ci sono voluti quattro anni di lavoro per realizzarlo, ma oggi quelle immagini così consuete in ogni ottica familiare, fatte per ricordare volti e giornate, ricorrenze e lampi di felicità, restituiscono la semplicità quasi naturale delle intenzioni, ma non possono nascondere il preventivo lavoro di tracciamento di quei materiali biografici che ha permesso di aprire le porte ad una inattesa intimità. In questa prospettiva e solo così poteva avvenire la ricostruzione del mondo sentimentale di Ainhoa, poteva venire alla luce il suo lato oscuro, culminato in un suicidio giovanile, tanto drammatico, quanto inatteso. Ma è appunto il cinema secondo Carolina Astudillo Muñoz a rivelarlo, perfino ai parenti, proprio con un film che sembra fatto dalla stessa protagonista, costruito con le stesse immagini custodite per anni. Il film, il suo dispositivo, diventano la macchina della verità, rivelando ciò che sarebbe rimasto nell’ombra, le immagini illuminano un profilo finora oscuro che si fa finalmente saturo di un colore autentico, spogliano la vita di ogni ipocrisia, sul limitare della tragedia umana le donano lo splendore che sembrava perduto. Un recupero di memoria e un tempo ritrovato, il cinema si fa cosa seria, non solo e forse non più dispositivo narrativo, ma autentica fonte del vero, macchina di insospettabile potenza e segreta cassaforte di ogni sentimento non pronunciabile, non rivelabile.

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