Red Rocket – Il cinema di Sean Baker

Sean Baker rappresenta uno dei nuovi modelli di cinema indie, quello iPhone, Gucci e tattoo che finalmente ha avuto accesso a Disneyland. Arriva alla Festa del cinema di Roma con il nuovo film

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Alla Festa del Cinema di Roma 2021, nella sezione Tutti ne parlano, arriva l’ultimo film di Sean Baker, già presentato a luglio in quel di Cannes dove era in concorso per la Palma d’oro poi vinta da Titane.
Red Rocket dovrebbe essere la chiusura di una trilogia sulla periferia americana iniziata con Tangerine (2015) e proseguita con The Florida Project (2017) che arrivò agli Oscar per la candidatura di Willem Dafoe come miglior attore non protagonista. Baker, ormai al suo settimo film, è da anni una tra le voci più sorprendenti del cinema indipendente americano. Un cantore scorretto e colorato delle realtà periferiche statunitensi che in una versione più edulcorata e meno esplosiva rispetto a Larry Clark e Harmony Korine ci ha raccontato, filmandolo distante con un iPhone, l’American Dream chiuso dentro un parco divertimenti inaccessibile.
Ed è proprio la sequenza del pestaggio filmato con l’iPhone dai ragazzini di The Florida Project che meglio ci racconta chi è Sean Baker. Uno tra tanti squattrinati studiosi, e laureati, di cinema che subito dopo la New York University finisce a fare il videomaker realizzando spot e video promozionali che gli serviranno per mettere da parte il budget sufficiente alla realizzazione del suo primo lungometraggio, Four Letter Words (2000), dove lavorando in pellicola mette in campo tutte le sperimentazioni stilistiche e contenutistiche presenti nei lavori successivi. L’approccio che ha Baker con il suo cinema è un approccio sporco, da reportage, soprattutto all’inizio della sua carriera, quando riesce a candidarsi per il premio John Cassavetes insieme a Shih-Ching Tsou, suo co-regista, con Take Out (2004). Un film che avrebbe potuto girare Cassavetes in digitale tra le strade di New York alla ricerca dell’azione pura e del personaggio che corre da un fotogramma all’altro. Nulla viene sprecato, la macchina viene palesata anche se nessuno ci interagisce. È tutto veloce e distante nonostante l’estrema vicinanza coi personaggi. È come se quelle filmate fossero riprese rubate all’improvviso. Un iPhone nascosto sotto il giubbotto mentre in metro due si scazzottano. Dopo Take Out, storia di un immigrato cinese che cerca di recuperare i soldi che deve ai suoi strozzini, e dopo Prince of Broadway (2008), dove Lucky deve all’improvviso occuparsi di un figlio di cui non conosceva l’esistenza, si chiude la fase più apertamente cassavettiana, fatta di immediatezza e improvvisazione, e si apre una fase più intimista e “dolce” con Starlet (2012). Proiettato a Locarno e vincitore di uno Spirit Award, da qui Baker inizia la drammatizzazione del suo cinema. Si inizia a parlare di famiglie disfunzionali, di personaggi ai margini che non sono più gli immigrati con difficoltà d’integrazione dei primi film. O meglio, anche questi sono personaggi con difficoltà d’integrazione, ma per la prima volta nel suo cinema ci si ferma a riflettere. Si muove di meno anche la camera, viene rollata una canna e ci si abbandona sul divano a ripensare a tutto. I suoi personaggi sono i Kids (1995) di Larry Clark ormai allo stremo. Sono addolciti, apatici, sfiniti, insoddisfatti, ma poi qualcosa all’improvviso rimette tutto in discussione. C’è speranza.

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Mumble-mumble, inizia la fase mumblecore.
Starlet è il primo film che farà conoscere il talento di Sean Baker fuori dagli States e quello che attirerà l’attenzione dei due padrini del mumblecore, i fratelli Duplass, che nel 2015 gli producono Tangerine. Girato con tre iPhone 5s, un’app da 8 dollari (FilmicPro), un adattatore per lenti anamorfiche e una steadycam. Si torna alla velocità, all’immediatezza e all’improvvisazione. Raccontando con estrema umanità la comunità LGBT e la ricerca di quell’amore infedele da parte di Sin-Dee, Cenerentola atipica che al calar delle luci calde californiane perde il suo amore per ritrovare sui marciapiedi i mostri della subculture losangelina.

Dopo Sin-Dee, Baker si presta alla moda girando uno spot per Kenzo, Snowbird, sempre con iPhone in mano, ormai tratto distintivo e le luci calde della California a riempire lo schermo e subito dopo The Florida Project, film in assoluto più maturo, si presta ad uno spot per Khaite girato in pellicola dove i suoi personaggi sporchi e fuori dagli schemi, sempre fuori dalle luci della ribalta e chiusi fuori da Disneyland, finalmente hanno preso il palcoscenico. Sono eleganti, alla moda e continuano a farsi spazio a suon di botte tra i sobborghi di New York come in The Warriors di Walter Hill.

E Sean Baker continua a fare a pugni e a spingere tra le metropolitane e i vialetti puzzolenti delle metropoli per cercare finalmente il proprio spazio ad Hollywood. Combinandosi tra pop, elementi grotteschi e crudo realismo, il suo cinema diventa dolce e “alla moda”. E forse è questa la forma più pura di cinema indipendente che riesce però con una pelliccia addosso sopra una tuta Gucci e i tatuaggi in faccia ad evolversi e ad entrare dalla porta posteriore di Hollywood. C’è un nuovo indipendente 2.0 che tra qualche giorno ritroveremo in quel della Festa del Cinema di Roma.

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