Rendez-vous avec Pol Pot, di Rithy Panh

Gli anni oscuri del regime dei khmer rossi stavolta vengono raccontati con gli strumenti della fiction. Una lezione di sottrazione e di economia dei mezzi. CANNES77. Cannes Première

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La filmografia di Rithy Panh è da sempre votata alla causa di una memoria da ricomporre. E per questo torna per l’ennesima volta al buco nero della storia cambogiana, il regime di Pol Pot e dei khmer rossi. Ma stavolta sceglie di non utilizzare le forme del documentario, su cui ha fondato la sua statura autoriale. Era dal 2008 che non si cimentava con la fiction, dai tempi della trasposizione di Un barrage contre le Pacifique di Marguerite Duras. Un film che, non a caso, si concentrava su un altro periodo della storia del paese. Quasi come un’ammissione, da parte di Panh, dell’impossibilità di raccontare le cupe vicende, ma ancor più l’essenza della Kampuchea Democratica con gli strumenti della finzione.

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E così, dopo che in anni e anni di riflessioni ha tentato di ricostruire, almeno parzialmente, i vuoti delle immagini mancanti, Rithy Panh decide di compiere il passo, ispirandosi al libro When the War Was Over: Cambodia and the Khmer Rouge Revolution, in cui la giornalista del Washington Post Elizabeth Becker racconta il suo viaggio in Cambogia con Malcolm Caldwell, Richard Dudman, per un’intervista a Pol Pot, la prima concessa a dei reporter americani.

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La sceneggiatura di Rithy Panh, con la collaborazione di Pierre Erwan Guillaume, ovviamente dà un’altra versione dei fatti. Nel 1978, dopo tre anni dall’instaurazione del regime, tre francesi accettano un invito ufficiale, nella speranza di avere un’intervista esclusiva dal Fratello n. 1. Si tratta di una giornalista che già conosce quelle zone, di un fotoreporter e di un intellettuale marxista e rivoluzionario, che avuto una lunga e “amichevole” corrispondenza con il dittatore. Ma non appena atterranno in Cambogia, vengono praticamente messi in reclusione, nell’attesa di un incontro procrastinato all’infinito.

Rendez-vous avec Pol Pot restituisce a pieno il senso di oppressione di quest’attesa, in uno spazio limitato e un tempo sospeso. E registra il progressivo cambiamento della percezione dei protagonisti. Che dall’incredulità iniziale passano a uno stato di tensione sempre più palpabile. Fino a essere risucchiati nel vero e proprio terrore, nel momento in cui si ritroveranno alla presenza di Pol Pot. Il dittatore definisce l’ideologia disumana del regime (“meglio non avere nessun’umanità che un’umanità imperfetta“), incurante delle domande provocatorie della giornalista interpretata da Irène Jacob. Ma ancor più delle obiezioni composte e sempre più sconcertate del suo amico intellettuale, mentre la paura si dipinge sul volto di Grégoire Colin. Pol Pot rimane sempre avvolto nell’oscurità, nemico invisibile, addirittura infilmabile. Da qui assistiamo all’unica reale scena d’azione del film, punto di arrivo tragico di un film in cui Rithy Panh lavora costantemente di atmosfere, di sensazioni, più che di eventi. Al punto che gli accadimenti, gli spostamenti da un luogo all’altro vengono evocati dai soliti modellini di terracotta, usati dai tempi dell’Immagine mancante. Una lucida lezione di sottrazione e di economia dei mezzi.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3.5
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    4 commenti

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