#RomaFF10 – Microbe et Gasoil, di Michel Gondry
Come già in “L’épine dans le coeur” e in “The We and the I”, Gondry persegue il suo sogno di annullare il set, di dissolverlo per le strade, tra le cose stesse del mondo
Se Mood Indigo era il film del disincanto, della dolce e disperata consapevolezza di un cinema che non sta più nei limiti del sistema e che non ha più la capacità di salvare niente e nessuno, Microbe et Gasoil sembra ripartire da lì, da quella specie di grado zero. E, infatti, è un film di ragazzini in partenza, di due amici che si affacciano all’adolescenza e all’avventura. Ma con una consapevolezza da vecchi saggi, di quelli che abbracciano ancora la bella e malinconica innocenza del gioco, l’unica cosa che resta dopo il dolore più intenso, il lutto della felicità e il distacco.
Daniel è un romantico di primo pelo, con la testa in un mondo svagato e una famiglia nevrotica. Disegna molto, con una mano felicissima, ma di certo non ha il talento per le relazioni sociali. È segretamente innamorato di una compagna, Laure, che lo tratta da amichetto, come da perfetto manuale d’adolescenza. Gli altri lo chiamano Microbe, giocando sulla sua altezza e il suo viso da bambino (o bambina?). Un ragazzo solo, insomma. Finché in classe non piomba un nuovo arrivato, Theo, spavaldo e impertinente, giubbotto di pelle e aria ribelle. Non è benvoluto, al punto che gli affibbiano il nomignolo, non proprio lusinghiero, di Gasoil. Tra i due nasce un’amicizia istintiva, un legame che li porterà a immaginare un viaggio estivo su un’improbabile e magnifica macchina fatta in casa.
Daniel e Theo non hanno né la gioiosa cattiveria né la vita amara dei ragazzi sul bus di The We and the I. Forse perché tra il Bronx è Versailles, in fondo, passano anni luce, più o meno gli stessi che separano il vecchio e il nuovo mondo. Microbe e Gasoil sono adolescenti normalissimi, con i problemi di tutti: i primi turbamenti sessuali e i primi amori, le famiglie più o meno presenti o incasinate, le difficoltà delle relazioni. Perciò niente lacrime e niente smarrimenti, anche quando le strade sembrano chiuse. Hanno soltanto un’immaginazione più sviluppata degli altri e una disponibilità alla vita, nonostante sia dura comunque. E perciò hanno una tenacia commovente nel difendere il valore dei legami e la libertà dei percorsi. Senza star più a contare le botte e a temere gli ostacoli.
Gondry, dopo il terremoto di Mood Indigo, pare voler rinunciare a tutto l’armamentario fantastico della sua immaginazione irrefrenabile, per rinchiudersi in un film piccolo, piccolissimo. Quasi un “corollario”, già. Ma è solo una normalizzazione apparente. Perché, come già in L’épine dans le coeur e in The We and the I, Gondry persegue il suo sogno di annullare il set, di dissolverlo per le strade, tra le cose stesse del mondo. E come i suoi giovanissimi protagonisti, afferma ancora una volta la necessità di una dimensione più umana, intima, come una famiglia calda e sgangherata o una scuola di campagna (e anche la zia di Daniel insegna come la zia Suzette di L’épine dans le coeur). Che poi è la fede incrollabile in un cinema artigianale, fatto in casa, con quel poco che si ha, in cui tutti gli effetti vengono dalle mani, dalla fantastica normalità della pratica, e tutto l’artificio è incredibilmente concreto. È esattamente come la casa mobile di Microbe e Gasoil, che sembra essere l’immagine perfetta della visione e delle ossessioni di Gondry, quell’utopia che non era riuscita a Colin, ingrigito nella schiuma dei giorni. L’immaginazione è un lento movimento di liberazione dai sistemi, dalle regole dell’economia, dai drammi già scritti dalla quotidianità, dai linguaggi imposti, dalle poltrone dei dentisti. Non è un’illusione. È un lavoro bellissimo, perché fatto in autonomia, fuori dall’industria (del cinema), dai suoi ritmi e dai suoi ruoli… Basta pochissimo, un aereo che atterra a marcia indietro, come in un altro urgente be kind rewind. O un errore di grammatica che infrange gli schemi e altera i tempi… “Mancano le transizioni”, dice a un certo punto Daniel, passando improvvisamente dall’aereo al treno. E allora? È un cinema sbagliato, quello di Gondry, che se ne sbatte delle transizioni, non perché ne ignori l’esistenza, ma perché sa che l’unica cosa da fare è alterare le traiettorie, riconsiderare la conseguenzialità delle cose sotto un’altra prospettiva. Certo, la macchina brucia, ma continua a camminare in qualche modo. Certo, l’amarezza si fa sentire, la costrizione. “Sei cresciuto, Daniel. – Forse è tutto il resto che si è ridotto”. Certo, non ci si volta più a incrociare gli sguardi, perché si è diventati adulti e il desiderio si è assopito. Ma si può continuare a contare, all’infinito. “Abbiamo giocato con la sostanza stessa della vita e abbiamo perso”. E allora? Almeno abbiamo giocato.