She’s Got No Name, di Peter Ho-sun Chan

La ricostruzione di un celebre caso d’omicidio nella Cina degli anni ’40, offre a Peter Chan l’occasione per un discorso sulla storia e la condizione femminile. CANNES 77. Fuori concorso

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Le persone non vivono in uno spazio e in un tempo astratto. Le loro vicende fanno parte di un movimento più grande, incrociano la storia collettiva, contribuiscono a determinarne un minimo, infinitesimale tratto, per poi dissolversi nel quadro. Per Peter Chan questo è sempre stato chiaro. Almeno sin dai tempi di Comrades, Almost a Love Story, il suo devastante capolavoro. Le vite dei due protagonisti, Leon Lai e Maggie Cheung, in cerca di fortuna e soprattutto d’amore, erano legate a doppio filo con le sorti di Hong Kong, una città avviata all’handover, al ritorno alla Cina, con il timore e la consapevolezza della fine di un’epoca, che risuonava nelle note di Tian mi mi di Teresa Teng.

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Ma, d’altra parte, Peter Chan sa anche che la storia non è semplice questione di accadimenti. Seppure, nella strabiliante padronanza spettacolare della sua messinscena, l’azione occupi sempre un ruolo fondamentale, dietro e intorno a ogni fatto c’è un ingarbugliato controcampo di sfumature sentimentali, emotive, psicologiche, sociali, culturali. Tutte da indagare e comprendere, per poter arrivare a cogliere almeno un riflesso della verità. Per questo i suoi film si muovono come la punta un cardiografo e disegnano il tracciato di personaggi complessi, che, tra mille alti e bassi, vanno in cerca di un modo per “sopravvivere a una vita imperfetta”.

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È quanto accade anche in She’s Got No Name, dove Peter Chan ricostruisce uno dei più celebri casi di omicidio avvenuti in Cina, negli anni ’40 a Shanghai, durante il periodo dell’occupazione giapponese. Una donna, Zhan-Zhou, è accusata di aver ucciso e fatto a pezzi il marito, soprannominato Grande Orso per la sua imponente statura. E il film si apre su una scena del crimine raccapricciante, il corpo dell’uomo smembrato, la testa mozzata, sangue ovunque. Ma davvero una donna così minuta è stata capace di uccidere e massacrare il cadavere di un uomo incomparabilmente più forte di lei? E perché? Quali sono i motivi che l’hanno spinta a un delitto così efferato? Per gli inquirenti non c’è alcun dubbio. Dopo l’iniziale confessione di Zhan-Zhou, chiudono il caso in un batter d’occhio. Ma il quadro sta cambiando, la città è in subbuglio e intorno al caso si crea un movimento di opinione che riaprirà il processo.

She’s Got No Name è, innanzitutto, il ritratto di una donna misteriosa. Apparentemente fragile, inerme, dal precario equilibrio mentale, segnata, anche fisicamente, da macchie orribili. Eppure, come diverrà sempre più chiaro, tenacemente aggrappata alla vita, capace di inventare soluzioni e di costruire legami per sopravvivere al caos che la circonda. Una donna che trova una definizione compiuta nell’interpretazione di Zhang Ziyi, tornata a un ruolo da protagonista dopo anni trascorsi un po’ nell’ombra. Ma la storia di Zhan-Zhou offre, in modo del tutto naturale, lo spunto per un discorso sulla condizione della donna, che dal contesto storico degli anni ’40 allunga ovviamente i suoi riflessi sul presente. Grazie a una serie di personaggi femminili che raccontano una realtà di violenza, abusi, di diritti negati, ma anche di coraggio, di comunione, di difficili lotte di rivendicazione.

Ma, più generale, Peter Chan moltiplica le figure e le tracce narrative, per costruire un quadro storico articolato, che dall’occupazione giapponese arriva alla rivoluzione e all’affermazione del maoismo, fino alla coda contemporanea. I livelli si stratificano, con quei frammenti di pièce teatrale che ripercorrono e doppiano le vicende del caso di cronaca, creando un gioco di scatole (cinesi), case di bambole, in cui i fatti e la riflessione sui fatti vanno sempre di pari passo. E il risultato è una cattedrale di luci, ombre, colori, segni, in cui arriva a piena espressione il dominio della forma, il controllo perfetto dei movimenti negli spazi densi della ricostruzione scenografica. Peter Chan cerca ancora una volta il punto di equilibrio tra il fuoco del dramma e la vertigine della messinscena. Forse manca l’emotività incandescente di altri suoi film e la rappresentazione rischia di prendere il sopravvento. Ma il disegno è di un’eleganza sconfinata. Che molti non riuscirebbero a ottenere neanche se ripercorressero più volte la ruota del tempo.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3.5
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Il voto dei lettori
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