ShorTS International Film Festival 2023 – Intervista a Adriano Valerio

Abbiamo intervistato il cineasta, protagonista di un focus a Trieste, per parlare della sua poetica, che tappa dopo tappa rivela un autore alla scoperta della vita attraverso il viaggio perpetuo

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Adriano Valerio è un regista e sceneggiatore che si fa conoscere nel 2013 con la Menzione Speciale a Cannes per il Miglior Cortometraggio. Poi il David per il Miglior Cortometraggio e un Premio Speciale ai Nastri D’Argento nel 2014, sempre per 37°4 S. Nel 2023 vince un Ulteriore Nastro D’Argento per Calcutta 8.40. Il suo Mon amour mon ami è stato presentato alla Mostra del Cinema di Venezia (sezione Orizzonti).

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Allo ShorTS Film Festival è stato protagonista di un focus, Campolungo, durante il quale è stato possibile rivedere parte della sua opera. Sei cortometraggi e un lungo (Banat – Il Viaggio) compongono il mosaico d’autore di un regista fortemente attratto dal racconto della distanza, dal viaggio, dalla frammentazione intima dei personaggi che esplora. Il suo prossimo film, Casablanca, in uscita tra qualche mese è una continuazione di questo fil rouge.

Sono felicissimo di poter rivedere i miei film tutti insieme, oggi. Perché in qualche maniera non sono più un esordiente ma sono ad un punto della mia carriera in cui posso guardarmi indietro e rendermi conto di aver portato avanti una mia visione d’insieme, concreta. Mi piace tracciare delle traiettorie virtuali, segnare una mappa che traccia i luoghi che ho visto e raccontato”. Queste le parole del cineasta a proposito della sezione a lui dedicata. Ecco la nostra intervista esclusiva.

La prima impressione che si ha guardando i tuoi film è sicuramente quella di uno sguardo profondamente cosmopolita nel raccontare i più disparati posti nel mondo. Ma il vero fulcro dei tuoi racconti è l’interiorità dei personaggi che esplori. Come ti confronti con questi due livelli; di intimità e cultura globale?

Penso che in maniera naturale ed organica si fondano, da una parte, il mio interesse quando guardo o leggo delle storie, e dall’altra l’aspetto più profondamente umano. Questo per me viene prima di ogni discorso culturale e sociologico. Mi ritengo una persona che segue e studia quello che accade alla società. D’altro canto il mio istinto mi porta verso gli individui; e penso che traspaia nei miei film. Poi la mia storia personale si fonde alla mia visione registica. Infatti venendo da una famiglia profondamente conservatrice e religiosa ho sempre cercato di perdermi nel mondo e di allontanarmi sempre più dalle mie origini. Il nostro mondo è colmo di storie umane che a mio parere ogni regista ha il dovere di raccontare. Al di la di ogni discorso produttivo.

Come scegli i luoghi che decidi di indagare? È solo una questione casuale e di incontri?

Di base si, mi lascio molto trasportare dagli incontri e dalle storie che secondo me meritano di essere raccontate. Di base ogni film è frutto di un flusso che ho scelto di seguire. Ad esempio il mio Calcutta 8.40 nasce dalla storia di un mio amico che ho conosciuto a Parigi. Quindi ho scelto di portarlo lontano da un luogo che gli appartiene. Per Banat lo stesso, un mio amico era andato in Romania per un business di mele e mi ha convinto ad esplorare quelle zone. In quel caso c’era anche un importanza politica nel raccontare un italiano che riveste il ruolo di immigrato. Questo è il metodo che ho seguito per tutti gli altri miei film, e mi dà sempre la possibilità di esplorare nuovi posti e personaggi. Trovo interessante scoprire il luogo, sia per i miei personaggi sia per l’esperienza di vita. La mia carriera parallela di insegnante mi aiuta molto in questo, avendo insegnato in Libano, Burundi, Marocco, Tunisia. Tutti i miei progetti futuri e passai hanno in comune la ricerca di una distanza lontana.

È giusto dire che a te interessa più di ogni altra cosa l’atto, il fare, rispetto al prodotto concluso?

Assolutamente. Nel mio caso è fondamentale anche lo spaesamento del viaggio. L’atto è anche la volontà di raccontare storie. Mi rendo conto che purtroppo c’è un sistema economico, col quale mi sono anche scontrato, che ti costringe a parlare di contratti, budget e via dicendo. Invece un regista dovrebbe esclusivamente occuparsi delle vicende che sceglie di esplorare.

Il sistema che scegli per far parlare i tuoi personaggi è quasi sempre la voce over, come una narrazione personale e interiore; e questo segna una messa al centro della prima persona singolare, l’io. Poi però d’altra parte troviamo la presenza fissa dell’amore (che sia romantico o familiare), un ulteriore fulcro delle tue storie. Questa non è una base conflittuale costante, secondo te, tra l’io e l’altro?

La voce over è uno strumento che ho scoperto con 37°4 S, nonostante fossi molto contrario. Per una serie di vicissitudini sono stato obbligato a ripiegare su questa scelta. Lì mi sono reso conto di quanto in realtà mi piacesse. Basti pensare che altri cineasti che io ammiro molto la usano: Wong Kar-wai, Sorrentino, Gomes. Può essere molto autoriale. Quindi uso la voce over per portare avanti il mondo interiore. Si, l’amore è una fragilità. Ma è anche il principio del cambiamento, come ogni conflitto. Peraltro ho avuto modo di approfondire l’uso della voce over e il suo utilizzo, specialmente in Calcutta 8.40 e Banat, in cui vediamo dei personaggi che dal dialogo diretto passano al fuoricampo. C’è questa transizione, spero organica, dal dialogo interiore a quello diretto.

Parlando di linguaggi, un tuo merito è sicuramente quello di non badare affatto agli stilemi e preferire piuttosto una totale libertà in ambito formale. Penso ad esempio all’utilizzo dell’archivio, o della fotografia e del montaggio, o della musica.

Si, mi diverte molto usare gli archivi, così come potermene fregare e mischiare tutti i linguaggi possibili. Uscire dalle convenzioni insomma, senza aver chiaramente inventato nulla.

Quest’anno sei stato vincitore del Nastro d’Argento per il miglior cortometraggio. Parallelamente viene assegnato un premio speciale ad Alice Rohrwacher che è la portavoce di nuova generazione di quello che alcuni chiamano “realismo magico”. Ti senti di poterti accomunare a questa corrente, viste alcune similitudini nelle idee e nei temi? O hai una tua definizione per le storie che racconti?

Faccio un po’ fatica a trovare una definizione per il mio genere di lavori. Ancora oggi non riesco ad inquadrarli anche se rivedendoli mi fanno riflettere parecchio, come andare da uno psicanalista. Credo molto nei momenti di magia della vita, in generale. Quando la nostra dimensione reale diviene una dimensione magica. A mio parere i fratelli D’Innocenzo riescono benissimo a catturare questa magia della vita. Alice Rohrwacher è un’autrice che stimo moltissimo perché ha una capacità straordinaria di creare universi e posare uno sguardo sulla realtà che sa essere contemporaneamente politico e infinitamente empatico. In particolare sulle condizioni delle comunità rurali e sui personaggi marginali, restituendone una poesia fantastica. Sicuramente tipica di un cinema di altri tempi che si vede sempre meno.

Non credi che ad oggi il racconto delle comunità più marginali, fuori dalle città, sia un bisogno sempre più impellente? Visto anche il focus del cinema, specialmente italiano, verso quella direzione. Pensiamo a Jonas Carpignano, Michelangelo Frammartino o Rohrwacher, appunto.

Io vivo in una città, Parigi, che per molti aspetto adoro. Ma in altri aspetti rasenta l’incapacità totale delle persone di relazionarsi in termini empatici. Questa sensibilità empatica è una cosa che invece cerco profondamente nelle persone. Magari da giovane mi piaceva circondarmi di persone molto colte, essendo Parigi un posto formidabile nell’ambito dello scambio di idee. Ora invece sto attraversando un momento della vita in cui mi piace maggiormente capire chi ho dinanzi, parlare, comunicare. Non è detto che ciò avvenga esclusivamente nelle comunità rurali. Però nelle persone che sono riuscite a non farsi investire da un flusso violento della nostra società siano le stesse con cui, adesso, ho voglia di connettermi. Forse è questo che più mi accomuna allo splendido sguardo di Alice Rohrwacher.

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