Smetto Quando Voglio: ad Honorem, di Sydney Sibilia

Qualunque deviazione si sacrifica all’altare del ritmo che non va decelerato, mantenuto a tutti i costi alla velocità di battuta coatta/riferimento pop-cinefilo/sketch grottesco/blues accattivante

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C’è un’inquadratura ad un certo punto di Ad Honorem, ma vi prometto non è uno spoiler (non più di quanto lo sia dirvi che poco prima Edoardo Leo abbia sussurrato “amore mio” non sappiamo se all’indirizzo di una donna o delle pareti dell’Università…), in cui i nostri eroi stanno attraversando il celebre colonnato di Piazzale Aldo Moro, quello posto sulla soglia della Cittadella della Sapienza. Ora, come sappiamo, la banda dei ricercatori è formata in questa terza avventura da galeotti, incastrati dal piano diabolico di Luigi Lo Cascio alla fine dell’episodio precedente: eppure, a scrutare bene il cielo che fa capolino dalle fessure dell’arco, così somigliante alla visuale dalla finestra a scacchi di una cella, viene da chiedersi chi stia realmente guadagnando l’uscita dalla gabbia, se i criminali cervelloni da strapazzo, o la coppia di laureandi che li incrocia disquisendo del prof a cui è meglio chiedere la tesi. E dunque se la libertà sia al di là delle facoltà, là fuori, oppure il mondo intero sia la reale prigione, proprio come lasciava intendere Ingrid Bergman affacciandosi alle sbarre della sua camera nel finale di Europa 51, a guardare i suoi parenti attraversare il vialetto della clinica verso l’uscita.

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Giochiamo ovviamente al parossismo, ma lo fa tutto il film di Sibilia, e l’intera squadra e degli interpreti e degli autori: qualunque deviazione, anche suggerita, è purtroppo sacrificata all’altare del ritmo, che non va mai decelerato, da mantenere a tutti i costi anzi a velocità sostenutissima di battuta coatta/riferimento pop-cinefilo/sketch grottesco/pezzo blues accattivante. E’ chiaro che in un film dove progettare ed attuare un’evasione è l’espediente che occupa l’intera sezione centrale della narrazione (ribaltata poi nell’atto finale in aula magna, ritorno al punto di partenza come da manuale delle trilogie, dove ancora una volta il cruccio è tra lasciar uscire o non permettere di entrare…), la domanda da farsi è chi debba essere realmente liberato (scrivendo dell’episodio precedente, suggerivamo il fondale nebulizzato della città di Roma come risposta, e forse andrebbe confermata…).
Se vadano dunque spezzate le catene agli interpreti dalle caratterizzazioni sempre

honorempiù incastrate ai propri tormentoni, o ai personaggi stessi bisognosi di maggiore respiro, spazio, ancora libertà di azione e di anima: l’efficacia del coinvolgimento nella rutilante visione rimane indubbia, come il sacrosanto tentativo di non rinunciare a Monicelli anche se facciamo finta di vestirlo da Soderbergh – ma l’avventura precedente era forse più ambiziosa, anche se faticava poi a brillare per davvero e completamente.

Non è un caso allora se alla fine della giostra esagitata ne guadagni soprattutto il disegno degli antagonisti, l’introduzione della vicenda che porta il personaggio di Lo Cascio a ideare l’attentato del Sopox, e il rientro sul ring del Murena Neri Marcorè (oltre ad un Peppe Barra direttore di Rebibbia che è un’intuizione clamorosa): i due interpreti sono in grado di innervare i rispettivi ruoli di una dolenza autentica, forse l’univo vero antidoto da contrapporre al piazzamento distributivo da “prima commedia di Natale della stagione”, dalle quali il film è distaccato per l’appunto da un disegno quantomeno concettuale e produttivo in realtà ben più approfondito.

Regia: Sydney Sibilia
Interpreti: Edoardo Leo, Valerio Aprea, Paolo Calabresi, Libero De Rienzo, Stefano Fresi, Lorenzo Lavia, Pietro Sermonti, Marco Bonini, Rosario Lisma, Giampaolo Morelli, Peppe Barra, Greta Scarano, Luigi Lo Cascio, Valeria Solarino, Neri Marcorè
Distribuzione: 01
Durata: 96′
Origine: Italia, 2017

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