Soldado, di Stefano Sollima

Il sequel di Sicario è inevitabilmente meno fascinoso e meno perturbante del predecessore, ma regge bene alla distanza perché Sollima spinge il copione di Sheridan verso la sua anima più di genere.

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Se il tuo timore è quello di operare oltre i limiti, te lo posso garantire… non è così”. In uno dei dialoghi chiave del notevolissimo Sicario di Denis Villeneuve la protagonista Kate (figura che incarna e rilancia ogni dilemma morale tipico della scrittura di Taylor Sheridan) chiede al suo diretto superiore quali siano veramente le regole di ingaggio dell’operazione anti-droga, ottenendo come risposta una perturbante rassicurazione: “non ci sono limiti”. Ecco, allora, è da qui che bisogna partire per approcciare questo sequel diretto da Stefano Sollima e scritto sempre da Sheridan: se in Sicario l’esplorazione idelale del confine tra Usa e Messico (come evidente metafora del confine morale tra legge e caos, luce e buio) guidava lo sguardo morale di Kate; in Soldado quel confine è solo un lontano ricordo. Kate non c’è più e rimangono solo il cinico cowboy Matt Graver (l’agente Cia al quale affidare le operazioni più difficili e ambigue, interpretato da un sempre più lucido Josh Brolin) e il misterioso uomo nell’ombra Alejandro (ancora più tormentato e ancora più arma letale scagliata contro i cartelli messicani della droga). C’è una ragione narrativa e una storica per questo scarto: il film inizia con due traumatici attacchi terroristici in suolo americano da parte di fondametalisti islamici. Una volta appurato che per arrivare in America hanno attraversato il confine messicano, aiutati dai cartelli della droga, ecco che le regole di ingaggio cambiano nuovamente. Le leggi antiterrorismo consentono una libertà maggiore, “il lavoro sporco è il motivo per cui è stato chiamato” dice il ministro della difesa a Matt.

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L’efficace sequenza iniziale, del resto, configura già tutto: se in Sicario il tunnel tra Messico e Usa era la scoperta improvvisa che sparigliava la trama, qui si inizia direttamente da quel confine. Con le geolocalizzazioni satellitari e i visori termici puntati sugli immigrati irregolari (in piena era Trump). Ecco che ai mezzi toni e ai contrasti di luce tipici di Roger Deakins, il nuovo direttore della fotgrafia Dariusz Wolski (abituale collaboratore di Ridley Scott) scarta verso una linea più dark dando ai colori ipersaturi una connotazione retrò. Perché Soldado sarà tutto confinato in Messico, tradizionalmente il terreno dell’es più sfrenato nelle configurazioni del cinema americano (dal western al road movie, da Packinpah allo stesso Scott, l’attraversamento di quel confine segna spesso l’entrata nel caos). Stefano Sollima sembra allora l’uomo giusto, il sicario cinematografico perfetto per portare a casa un lavoro ottimamente confezionato e che regga il confronto con il suo blasonato predecessore, riuscendo a sondare i limiti di una Suburra più diretta e brutale di quella romana. Il campione della serialità italiana si immerge in questo prodotto hollywoodiano serializzato e sfodera un secondo capitolo (come da tradizione nelle triologie) più cupo e tosto del primo.

Ma cosa accade? Il piano di Matt è quello di rapire la figlia di un boss (responsabile tra l’altro della morte della famiglia di Alejandro) inscenando una faida tra cartelli messicani per creare il caos e far uscire i topi allo scoperto. Il piano riesce sino a un certo punto e i dilemmi morali fanno di nuovo capolino, ma questa volta sono tutti privati e sorprendentemente manifestati da Alejandro e dal suo rapporto con la giovane rapita. Come in ogni copione di Sheridan, poi, le vicende contingenti dei protagonisti si innestano in un alverare di trame incrociate capaci in poche battute di seminare (spettrali) tracce associate alla contemporaneità: i fantasmi della politica occidentale si scontrano con gli archetipi del mito e aggiungono un ulteriore tassello al grande romanzo sull’America contemporanea che questo imprescindibile sceneggiatore sta scrivendo (la bellissima serie Yellowstone è forse l’apice di tutto questo discorso).

Sollima, dal canto suo, non perde mai il controllo del treno in corsa, tiene tutte le vie di fuga aperte ma nello stesso tempo ben salde alla locomotiva principale. Proprio perché sa bene che il suo forte non sono certo i mezzi toni puntati al fuori campo (alla Villeneuve), bensì la frontalità dell’azione tutta in campo (in un dispositivo più di genere, dal war movie al western contemporaneo). Il film è inevitabilmente meno fascinoso e perturbante del primo, ma regge bene alla distanza proprio perché il regista italiano ha l’intelligenza di non confrontarsi con Villeneuve sul piano dell’ambiguità dei personaggi (o delle inquadrature) spingendo il copione di Sheridan verso la sua anima più “action”.  La vicenda del rapimento, allora, si trasforma in un duello a distanza consumato negli spazi: la parte finale del film si perde nel deserto – con tutte le referenze immaginarie che quel luogo si porta dietro – concedendo al personaggio di Benicio Del Toro aspetti quasi soprannaturali. Ecco che nelle ultime sequenze il cinema di Sollima tocca momenti di astrazione visiva inediti nella sua filmografia, affidandosi allo spazio (più che al tempo da sempre controllatissimo dal regista di A.C.A.B.) per arricchire e non poco il suo sguardo. Insomma in attesa del terzo (annunciato) capitolo che chiuda definitivamente i fili della vicenda di Alejandro e Matt, questo robusto Soldado resta un sequel decisamente riuscito.

Titolo originale: Sicario: Day of the Soldado
Regia: Stefano Sollima
Interpreti: Benicio Del Toro, Josh Brolin, Isabela Moner, Catherine Keener, Mattew Modine
Distribuzione: 01 Distribution
Durata: 122′
Origine: Usa, 2018

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