SPECIALE "IL GRANDE E POTENTE OZ" – Attraverso lo specchio (della letteratura)

il grande e potente oz
Dalla parola all’immagine e viceversa, quello del cinema appare un ritorno inevitabile alla scoperta delle proprie radici che trova in questa letteratura del meraviglioso un referente imprescindibile per (ri)catturare l’esaltazione della fiera e della sperimentazione dei pionieri, prima delle scuole e dell’istituzione.

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Nella sua introduzione al Meraviglioso Mago di Oz nell’aprile del 1900 Lyman Frank Baum scrive che le vecchie fiabe sono ormai obsolete e le biblioteche per ragazzi vanno popolate di “racconti meravigliosi”, privi di folletti, fate e nani e soprattutto liberi da quegli «episodi orribili e raccapriccianti inventati dagli autori per trarre da ogni storia una morale che incuta almeno un po’ di timore».

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L’educazione dell’epoca comincia infatti ad attribuire un valore positivo alla conquista di una morale individuale, ottenuta senza più strumenti coercitivi o repressivi ma favorita da un apprendimento sereno.

«Con questo pensiero in testa ho scritto Il Mago di Oz – continua Baum – solo per far piacere ai bambini di oggi. Questa storia vorrebbe essere una fiaba modernizzata nelle quale, conservate le meraviglia e la gioia, manchino le angosce e gli incubi».

 

Anche il cinema contemporaneo sembra pervaso dallo stesso desiderio di leggerezza, di abbandono alla fantasia,  esplicitato, come abbiamo visto, attraverso una nostalgia irrefrenabile per il cinema delle origini, per l’effetto meraviglioso e onirico dei primi dispositivi cinematografici, che l’esplorazione del 3D ha fatto riesplodere prepotentemente.

 

Non è forse un caso allora che negli ultimi tempi gli autori che si accostano ai blockbuster attingano alla letteratura per l’infanzia tra la metà dell’Ottocento e i primi del Novecento, che già presentiva – come nel caso di Lewis Carroll che dà alle stampe Alice nel paese delle meraviglie nel 1865 la grande rivoluzione del Cinema o ne era pressoché coetanea, come in quello di Baum.

 

 

Dalla parola all’immagine e viceversa, quello del cinema appare un ritorno inevitabile alla scoperta delle proprie radici che trova in questa letteratura del meraviglioso un referente imprescindibile per (ri)catturare l’atmosfera effervescente della propria nascita, l’esaltazione della fiera e della sperimentazione selvaggia dei pionieri, prima delle scuole, dei movimenti, dell’istituzione.

 

In questo viaggio à rebours, il cinema incontra e riscopre una narrazione che anela alle potenzialità dell’immagine e ne fa un canovaccio rigenerante per la sua meta-riflessione sul linguaggio.

 

Già per Carroll, infatti, la creazione di un mondo fantastico si dà come corollario teorico di una pratica ludica che lo portava a inventare marionette e giochi di prestigio per i fratelli minori, e a ritrarre con una delle prime macchine fotografiche quelle compite bambine dell’età vittoriana che saranno modello per la sua Alice.
Così l’opaco insegnante di matematica
Charles Lutwidge Dogdson rinasceva nel doppio Carol(l) (il canto, la gioia) nello stesso modo in cui l’Oscar Diggs di Raimi abbandona il triste Kansas in bianco e nero, dalle platee diffidenti, per le meraviglie di Oz, reinventandosi come Mago.

 

Sam Raimi nella sua OzLo scrittore e il cineasta non parlano altro che di loro stessi, della propria ossessiva attrazione per la lanterna magica, imparando a celarsi tra i protagonisti delle loro opere, capaci di fondere le contraddizioni della loro epoca nel sovvertimento costante delle regole. Da quelle della società vittoriana rigide e repressive che Carroll contrasta col suo alter ego attraverso le peripezie della sua piccola protagonista in un mondo rovesciato a quelle del cinema mainstream che Raimi sembra sempre scardinare dall’interno.

 

Tim Burton risponde allo stesso modo, seppure il suo immaginario appaia meno in salute di quello raimiano.
E raddoppia anzi la posta, perché se Sam Raimi coincide perfettamente con il suo imbonitore da fiera, Burton
come Carroll si nasconde in Alice, alla scoperta delle meraviglie, e dunque spettatore del suo stesso spettacolo; ma si attribuisce allo stesso tempo il ruolo, demiurgico, di Cappellaio Matto, quasi a voler rivendicare questo ruolo all’interno dell’industria cinematografica – e paradossalmente nel momento in cui il suo cinema è ormai sdoganato e istituzionalizzato, perdendo il potenziale irriverente ed eversivo degli epigoni letterari.

 

Accanto a questi enfant prodige degli anni Ottanta anche gli ex movie brats Scorsese e Coppola si intrattengono in riflessioni analoghe. Hugo Cabret e Twixt sono risposte agli antipodi che attestano la grande distanza presa dalle rispettive carriere.

Scorsese attinge al romanzo contemporaneo di Brian Selznick per una nuova lezione sul cinema e il suo film, pur recuperando l’alleanza tra infanzia e cineasta/mago, è – come il testo di partenza – una riflessione di secondo grado, mediata e depotenziata rispetto al legame diretto sull’ala della meraviglia e dello shock visivo che i film di Burton e Raimi intrattengono con Carroll e Baum.

Coppola guarda invece a un’altra letteratura, quella gotica di Edgar Allan Poe, e soprattutto al romanticismo dannato che la figura del grande autore americano veicola, per affermare la sostanziale identità tra cineasta e romanziere, un Dante guidato dal suo Virgilio alla riscoperta delle proprie ossessioni, delle immagini ritornanti del suo intero cinema, per ritrovare attraverso la visione la capacità di narrare ancora, in questo continuo e speculare rovesciamento prospettico tra cinema e letteratura, fotogramma e parola. Come Alice, attraverso lo specchio.

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