Stateless, di Emma Freeman e Jocelyn Moorhouse

Cate Blanchett alle prese con un’altra serie sui diritti umani, ispirata alle vicende di una vera cittadina australiana incarcerata illegalmente tra il 2004 e il 2005. Su Netflix

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Presentata in anteprima alla 70esima edizione del Festival Internazionale del Cinema di Berlino e uscita lo scorso 2020, questa delikatessen – purtroppo rimasta nell’ombra, anche se presente al momento nel catalogo Netflix – è una miniserie di sei episodi a scopo di denuncia sociale. Affronta il tema dei centri di detenzione degli immigrati in Australia mediante l’intelligente escamotage del porre come protagonista principale Sofie, interpretata da Yvonne Strahovski (la Serena di The Handmaids’ Tale), una cittadina bianca australiana privilegiata finita per sbaglio in un centro immigrazione. Cate Blanchett, da tempo impegnata nella tutela dei diritti umani, ha avuto un ruolo fondamentale in Stateless – insieme a Tony Ayres ed Elise McCredie – come creatrice, produttrice e anche interprete di un piccolo ruolo negativo e contorto, la cui presenza nel cast è servita a rendere possibile la serie. Questo arriva in seguito a un altro prodotto che la riguarda, Mrs. America, altra opera rimasta in penombra, in cui tratta le battaglie femministe degli anni ’70.

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La storia si ispira alle vicende di una vera cittadina australiana, Cornelia Rau, incarcerata illegalmente tra il 2004 e il 2005 – evento singolare che portò allo scoperto l’operato brutale e malsano dei centri di detenzione australiani, rivelando un sistema inumano e dagli ingranaggi burocratici difettosi. Questo pretesto, oggi, nell’epoca del politically correct, fa storcere il naso; si è stanchi di veder raccontare storie di altri da persone bianche privilegiate. Stavolta, però, è proprio questo stratagemma a catturare lo sguardo dei più, rimarcando il come si tratti di un problema che raggiunge tutti i cittadini del mondo; perché la denotazione di “cittadino di serie B” non si ferma alle minoranze, ma raggiunge anche i cosiddetti privilegiati. E infatti Sofie, nonostante tutto, rimane chiusa nelle stesse trappole burocratiche che da sempre minano la libertà dei rifugiati, consentendo a qualunque spettatore di immedesimarsi nelle loro storie e sentire il peso di quell’ingiustizia sulla propria pelle.

Stateless è alla portata di tutti, rimanendo doloroso e fin troppo reale pur non scegliendo un approccio documentaristico. Non si ferma a narrare le storie di chi è costretto a cercare una vita più sicura nei paesi liberi, ma tratta, in modo implicito, il tema stesso di libertà, ricostruendo un sistema piramidale che va dal richiedente asilo al normale cittadino, alla guardia del campo di detenzione alla funzionaria mandata a indagare sui metodi lavorativi del centro, fino a vertici sempre più alti e a tutto ciò che li circonda, come i manifestanti, gli aiuti umanitari e i giornalisti.

Il racconto segue infatti diverse prospettive, con le storie dei suoi protagonisti che vanno a intrecciarsi all’interno del centro di detenzione per immigrati clandestini di Barton, un posto dimenticato locato nell’assolato deserto australiano. La prima storia è quella di Sofie, appunto, ex assistente di volo, apparentemente oppressa dalla famiglia e che cerca conforto in una setta, la quale si nasconde sotto l’etichetta del gruppo di auto-aiuto GOPA – ispirato alla reale KENJA Communication – mascherato da scuola di danza. Nel tentativo di sfuggire ai problemi opprimenti che l’affliggono, finisce per errore a trascorrere dieci mesi di reclusione in un centro australiano di detenzione per immigrati. Vi sono poi le storie di tre sconosciuti, più tanti altri personaggi secondari. Ameer è un rifugiato afghano fuggito dalla persecuzione insieme alla sua famiglia; Cam è un australiano che, abbandonato un lavoro sottopagato, riesce a dare una vita migliore alla sua famiglia solo lavorando lì come guardia; e Claire Kowitz è la funzionaria mandata a indagare sui metodi lavorativi del centro di detenzione, recentemente coinvolto in uno scandalo.

Stateless racconta di persone esauste e schiacciate dalla vita, che cercano solo di rendere la propria esistenza quantomeno sopportabile. Riesce a far provare anche a coloro che hanno avuto il privilegio di nascere “dalla parte giusta” del mondo la sensazione di essere non-più-persone,  di essere sospesi in un limbo dove non si hanno certezze e dove il proprio destino è affidato a una burocrazia inumana, folle e difettosa.

Ma come è finita una donna bianca, benestante e cittadina australiana in un centro di detenzione per immigrati clandestini senza che nessuno si rendesse conto dell’errore? Questa é la domanda alla base della narrazione, atta a catturare l’attenzione e sviscerare nel frattempo tutti i problemi più complessi del centro (dei centri poi) e delle modalità di accesso e “scarcerazione”; perché il centro é proprio come un carcere che racchiude in egual modo criminali e innocenti. Ricorda come spesso quelli definiti “criminali” hanno commesso azioni disdicevoli solo per sopravvivere in un paese e un sistema che sono già di per sé criminali; e dimostra la fallibilità di un organismo che non funziona per nessuno, che nemmeno si accorge – né sa indagare o capire – delle vite delle persone detenute. Vengono affrontati i pregiudizi razziali e il dibattito sui ‘privilegi umani’, che qualcuno acquisisce per nascita mentre qualcun altro parte da una condizione di svantaggio; si forma così un racconto intenso quanto doloroso.

Quello dei privilegi o dei ‘cittadini di serie B’ è un discorso complesso, dipendente dalla prospettiva e dal contesto. Quelle che in una società occidentale sono considerate persone di serie B, come Sofie, vengono poi viste come privilegiate se si estende la prospettiva per includere chi è messo ancora più in basso nella scala sociale; al tempo stesso, permane il fatto che chi sembra privilegiato da quel punto di vista, sia in realtà sempre un cittadino di seconda classe nel grande schema delle cose.

Sofie, in quanto cittadina bianca privilegiata, nata dalla “parte giusta” del mondo, non ha comunque una vita libera; subisce angherie, uno stupro, nessuno si accorge dei suoi problemi di salute, é fragile e abbandonata dalla società. Quando scompare, non viene neanche cercata dalle forze dell’ordine. Eppure Sofie, dovrebbe essere privilegiata, se paragonata a chi scappa dalla guerra.

Questo dimostra che ognuno, bianco o meno, privilegiato o meno, è chiuso nella propria prigione sociale, ucciso dalla burocrazia piramidale. E poi ci sono gli ultimi, i cittadini senza stato, da qui Stateless; secondo la legge australiana è la condizione che si applica a tutti coloro che sono sprovvisti di un permesso regolare e quindi devono essere trattenuti in un campo di detenzione fino a quando la loro posizione non sarà stata chiarita. E quando e come sarà chiarita? Questi individui sono intrappolati da una burocrazia che non solo li priva della libertà, ma anche della dignità e della vita stessa, smettendo addirittura di essere considerati come persone, non più che prigionieri in attesa di essere ricordati, mentre le loro pratiche giacciono su una qualche scrivania. Si ha una dimostrazione accurata di come ogni cosa sia pensata in funzione delle apparenze, per appagare il proprio capo, la famiglia, per sopravvivere, e nulla funzioni davvero; e ciò porta alla nascita di trappole sociali che trattengono la libertà di tutti, in una vera e propria situazione kafkiana.

Titolo originale: id.
Ideatore: Cate Blanchett, Tony Ayres, Elise McCredie
Regista: Emma Freeman e Jocelyn Moorhouse
Interpreti: Yvonne Strahovski, Asher Keddie, Fayssal Bazzi, Jai Courtney, Marta Dusseldorp, Cate Blanchett, Dominic West
Origine: Australia, 2020
Durata: 55 min (a episodio)

 

Distribuzione: Netflix
Produzione: Dirty Films, Matchbox Pictures

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
4.2

Il voto al film è a cura di Simone Emiliani

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Il voto dei lettori
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