Terezin, di Gabriele Guidi

Un esordio debole che rimane nell’anonimato di una preconfezionata terra di nessuno e fatica a ritagliarsi spazio all’interno del filone dei film sulla Shoah.

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1942. Antonio (Mauro Conte) e Martina (Dominika Moravkova) sono due musicisti innamoratisi a Praga, nel corso della Seconda Guerra Mondiale. Lui clarinettista italiano, lei violinettista cecoslovacca. I due, deportati e costretti nel ghetto di Terezin, ingrassano le file di artisti rinchiusi e maltrattati dalla dominazione nazista. Il loro amore e la passione per la musica rappresentano gli unici reali appigli a cui aggrapparsi in un luogo di morte e perdizione.

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È lastricato di buone intenzioni l’esordio cinematografico di Gabriele Guidi (figlio d’arte di Johnny Dorelli e Catherine Spaak); e al suo Terezin, ennesima pellicola celebrativa appositamente impacchettata per il Giorno della Memoria, va perlomeno riconosciuto l’ardimento nel cimentarsi nella trattazione di una tematica ben più che delicata, scivolosa, persino abusata. Il giovane regista ci prova, si mette in gioco e, al di là di una retorica parecchio artificiosa – “non lasciate che i pregiudizi vi rendano prigionieri come le mura di questo posto” – e di una messa in scena scolastica (condita da flashback esageratamente didascalici), regala qualche sussulto – specie quando a prendere parola è il Dies Irae di Verdi.

Non basta però l’olio di gomito a risollevare le sorti di un film. E non bastano un paio di scene a regalare gusto a un prodotto che ha nell’insipienza la radice del suo maggiore demerito: sprecare se stesso e la propria essenza.
Guidi affastella musica e, insieme, se ne dimentica. Potrebbe sedersi al tornio, modellare le immagini sulle note e innalzare la melodia a nucleo tematico della pellicola, esaltandone la dolcezza sinfonica in opposizione al silenzio tombale del ghetto e della coscienza umana. Ma il suo Terezin è una creatura dalle ali spezzate, bloccata a terra; brano senza pause che infiltra una pur gradevole colonna sonora dalla pervasività eccessiva, sforzandosi di alzare il volume della propria voce, ma smorzandone, al contempo, potenza e carica significante.
Ne consegue un’opera prima che fatica a ritagliarsi spazio all’interno di un filone – quello dei film sulla Shoah – notevolmente inflazionato, dimenticando di aggiornare o quantomeno rimpinguare un discorso che, negli ultimi decenni, ha saputo arricchirsi delle firme di grandi cineasti. E se è forse ingeneroso il confronto con il capolavoro di Spielberg – anche se di “liste” si continua a parlare – ciò che davvero manca a Terezin è il coraggio di un punto di vista privilegiato. Il film tentenna, intimorito, mostrando l’una e l’altra fazione attraverso una ridondante alternanza cadenzata; in un ripetitivo (e a tratti soporifero) solfeggiare che non si arrischia (quasi) mai oltre la barricata – alla Mark Herman – nè ha la forza di spiegare le vele alla surrealtà de La vita è bella, rimanendo nell’anonimato di una preconfezionata terra di nessuno, “sanza infamia (?) e – di certo – sanza lodo”.
Regia: Gabriele Guidi
Interpreti: Mauro Conte, Dominika Zeleníková, Alessio Boni, Cesare Bocci, Antonia Liskova, Jan Révai, Marián Mitaš, Petr Vanek, Marek Lambora, Maia Morgenstern, Karel Dobry
Distribuzione: Lo Scrittoio
Durata: 110′
Origine: Italia, 2022
La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
1.8
Sending
Il voto dei lettori
1.75 (4 voti)
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