The Performance, di Shira Piven

Finché resta sotto le luci del palcoscenico, ha un passo elettrizzante. Ma non appena cerca di traslare le stesse tensioni verso la storia, sprofonda nel didascalismo più schematico. Grand Public

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Tip-tap, rumori di tacchi sul parquet, attacchi di panico, fiati sospesi: durante l’esibizione centrale di The Performance risuonano tutte queste sonorità, eppure per comprendere il reale significato della sequenza da cui si snoda l’intreccio del film bisogna estendere lo sguardo al luogo stesso in cui è ambientata la danza: il Kit Kat Club di Berlino. Ovvero, per chi ne ha colto la citazione, lo stesso locale in cui Liza Minnelli incantava con il suo talento magnetico i clienti tedeschi in Cabaret. Ma a differenza del leggendario musical di Bob Fosse, le tensioni qui non arrivano dall’esterno, cioè da una società che stava in quel momento covando le premesse per l’ascesa del nazionalsocialismo. Al contrario, il pericolo si materializza proprio dal centro del locale: è lì ai piedi dei danzatori. Visibile, come uno stigma, sulle divise di tutti i gerarchi nazisti che occupano lo spazio della platea.

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The Performance ha inizio nella Berlino del 1937: la Germania ha già intrapreso la via dell’imperialismo, e si prepara a delineare i piani che getteranno l’ordine mondiale nel caos. In questo contesto però, epurato di tutto ciò che non si conforma alle regole nazionali, subentra improvvisamente un’anomalia, un uomo che per la sua stessa natura risulterebbe incompatibile con le leggi naturali del nazionalsocialismo: un ebreo. Harold May (Jeremy Piven) è sì un ballerino di tip-tap americano, ma di origine ebraica, e insieme alla sua troupe cerca di trovare fortuna tra i locali di mezza Europa. L’occasione per il riscatto gli arriva proprio al termine di uno di questi spettacoli, quando incontra un enigmatico tedesco (Robert Carlyle) da cui riceve un’offerta singolare: dovrà esibirsi per una sola serata al Kit Kat Club di Berlino, per un compenso decisamente irrinunciabile. Ma una volta arrivato al locale, ecco che si trova davanti all’inaspettato: il committente non è nient’altro che il Führer, con l’intero alto comando nazista seduto lì ad assistere all’attesa performance.

Finché The Performance si muove sotto le luci del palcoscenico, riesce a canalizzare nel racconto tutte le istanze (e i contrasti) che il confronto ebreo/persecutore dovrebbe di per sé attivare: Harold gode qui dell’ebbrezza degli applausi, ma è terrorizzato dai volti divertiti dei nazisti; si immerge nell’estasi della danza, eppure pensa solamente a come smaterializzarsi da quel palcoscenico. Un conflitto forte, lancinante, che la narrazione però è in grado di mantenere stabile solo nelle sequenze di ballo. Lontano dal palcoscenico fa infatti fatica a drammatizzare le stesse tensioni, con il dissidio di Harold e della sua troupe che si apre spesso alle dinamiche di un didascalismo fin troppo piatto e superficiale. E che rischia così di banalizzare le crisi stesse su cui si fonda la quotidianità di chi, ogni giorno, è costretto a confrontarsi con le persecuzioni dei regimi totalitaristi.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
2.7
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Il voto dei lettori
5 (1 voto)
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