The Uncle, di David Kapac e Andrija Mardešić

L’opera prima del duo si muove tra l’ironia diabolica di Haneke e la freddezza emotiva di Lanthimos, ma trova comunque lo spazio per una notevole autonomia espressiva. In Concorso al RIFF di Roma

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Per decodificare questo The Uncle bisognerebbe forse partire dal senso di straniamento che trapela in ogni suo fotogramma. Nel corso della narrazione tutto infatti sembra provenire da una dimensione altra, impossibile da interpretare secondo i canoni della logica classica, proprio perché il film si ostina a dissolvere qualsiasi linearità di comportamento/pensiero. Al punto che le cose che dovrebbero risultare “normali” diventano oggetto di anomalie improvvise, nonostante si iscrivano nella dimensione del “quotidiano”. In questo modo ogni giorno può essere la vigilia di Natale, l’accoglienza del fantomatico “Zio” diviene fonte di terrore e soggiogamento, e le parole possono alludere ad uno scenario storico preciso come quello tardo-jugoslavo, malgrado il racconto si tenga tutto all’interno di quattro mura. In un anelito alla (sur)realtà, che tanto in termini narrativi quanto estetici, urla la propria appartenenza ai mondi repressivi di Lanthimos.

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In questo senso, The Uncle lo potremmo situare idealmente tra i reenactment performativi di Kinetta (2005) e i deliri domestici di Dogtooth. E lo osserviamo sin dalla prima sequenza: una famiglia all’apparenza “convenzionale” si prepara per accogliere in casa lo “Zio”, ma qualcosa sembra già stonare. Un cenno di nervosismo, un saluto digrignato a denti stretti, il filo di tensione che scorre sui volti dei tre membri del nucleo famigliare. È la viglia di Natale, eppure niente ricorda il calore conviviale del momento natalizio. La cena si svolge così, tra falsi sorrisi e emozioni abbozzate, fino a che la “Madre” non chiede informazioni sulla “Sorella”. A quel punto il velo della finzione crolla: siamo davanti ad una performance. E nella sequela di incontri che ri-metteranno in scena la destabilizzazione di quel gioco diabolico, il duo croato Kapac e Mardešić (qui al debutto) è abile nell’aumentare progressivamente la posta in palio, in un’escalation di tensione e nervosismo sistemico, che squarcerà sempre più le crepe dell’illusione. E a cui non potrà che seguire il terrore per l’ignoto. Di chi lo immagina impotente, e di chi ne muove le fila.

Ma a questo punto una domanda sorge spontanea. Perché ambientare il film in un periodo storicamente connotato, se poi i quattro protagonisti sono reclusi nello spazio perimetrale di una abitazione? Ecco, forse è qui che The Uncle trova il coraggio di staccarsi dai continui (e quasi ossessivi) riferimenti a Lanthimos o Haneke. Se nel corso della narrazione, il film si muove tra la glacialità ironica del cineasta austriaco e l’assurdità atmosferica del primo (rievoca anche la scena de Il sacrificio del cervo sacro in cui la famigliola siede sul divano sotto la feroce minaccia di un fucile), è nella declinazione temporale che il racconto afferma la sua autonomia espressiva. Con la multiculturalità della Jugoslavia di fine anni ’80 che si fa segno e metafora del disorientamento identitario dei protagonisti. Condannati, in quanto “croati”, a disperdere le proprie coordinate nel contesto di un ambiente/stato in cui faticano a rispecchiarsi. Ma non tutto, però, risulta perduto nell’oblio del passato. Si può anche rifuggire dalla freddezza emotiva dei predecessori, e aprirsi al tepore di un ultimo canto collettivo. Dove i corpi in sofferenza si abbandonano per un fugace istante ad un insperato e avvolgente sogno di libertà.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3.5
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Il voto dei lettori
5 (1 voto)
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