Transformers 5 – L’ultimo cavaliere, di Michael Bay

Ogni film della saga più che settarsi come progressione attua un ripensamento, una riscrittura, un tradimento continuo, insomma una negazione quasi intollerabile per come ragiona Hollywood oggi

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I fall to pieces

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Ammetto di aver avuto un po’ di paura nell’attesa di Transformers 5 perché da più parti i comunicati parlavano di un capitolo in grado di dare un senso alla mitologia alla base degli scontri tra Autobots e Decepticons sul nostro pianeta, e di legare insieme tutti e quattro i film precedenti attraverso una narrazione coerente. Ma l’ultima cosa che augurerei a Michael Bay è proprio di finire nel bel mezzo delle modalità contemporanee di costruzione dei franchise espansi e interconnessi, quei meccanismi della verosimiglianza e della continuity in cui l’entertainment ad altissimo budget è finito ingolfato di questi tempi. Per fortuna, lo chiariamo subito, era tutto uno scherzo, basta dare un’occhiata a come Bumblebee abbia imparato ad andare in pezzi, muovere indipendentemente ogni arto divelto in maniera da essere letale, e poi ricomporsi magneticamente, per capire l’indicazione di Bay sul suo reale interesse verso la coesione interna del materiale. E infatti, nonostante gli sforzi spesso esilaranti di Akiva Goldsman di costruire un dispositivo ad escape room pantagruelica ed interdimensionale, che tira in ballo il ciclo bretone e la sconfitta del Reich macinando riferimenti e immaginario a velocità supersonica e spesso seriamente incomprensibile, la concezione degli autori delle opere sui robot trasformabili continua ad essere ancorata ad un’idea di evoluzione, più che di espansione (come con lucidità preziosissima notava Davide Di Giorgio nell’unica chiave realmente utile per leggere l’intera operazione-Transformers, questa).
E’ così che, in accordo appunto con tutte le forme assunte in precedenza dall’epica di Optimus e dei suoi simili (cartoon, fumetti, videogames…), ogni film della saga dei Transformers più che settarsi come continuazione e progressione del precedente ne attua un ripensamento, una riscrittura, un rifacimento, un tradimento continuo, insomma una negazione quasi intollerabile per come intendiamo questi prodotti nel contemporaneo: alla fine dei conti, il bastone di Merlino è poco più di un pretesto per Bay per imbastire anche stavolta una giravolta sensoriale votata all’iperstimolazione fisica dello spettatore senza tregua.

Each time I see you

Una sequenza esemplare, su tutte, è quella posta alla fine della lunga – e inedita nella galleria di settings attraversati sino ad ora – sezione subacquea dell’opera: Cade/Wahlberg e Lennox/Duhamel, il cui team up tiene dunque insieme la trilogia teen iniziale con questa nuova traiettoria “adulta” della serie, cercano di sopravvivere all’onda gigante che sta per sommergere l’enorme astronave sulla cui superficie i due intraprendono una corsa a perdifiato. La magniloquenza dell’inquadratura è tale che la coppia di figure umane risulta talmente minuscola al nostro sguardo e al cospetto del movimento acquatico e della costruzione aliena, da perdersi completamente nel quadro astratto. Se nei film precedenti erano le silhouette dei robot a perdere di definizione per colpa della percezione fallace del mezzo, qui sono proprio gli esseri umani a scomparire nella prospettiva sconfinata del disegno (il finale in assenza di gravità è in questo l’ennesimo segno di una Hollywood che guarda con ogni evidenza alle astrazioni “sovraumane” di Telugu e delle megaproduzioni cinesi per tratteggiare anche ad Occidente una CGI da incubazione, da camera iperbarica sospesa senza pareti).
Il terzo Transformers, insomma, assume col passare dei capitoli una centralità

transformers-5-dragonche all’inizio non ci era apparsa così chiara: si tratta, infatti, come scrivemmo dell’episodio più ad altezza-uomo di tutti, quello dove le traiettorie dei giganti metallici si rivelavano maggiormente accessorie al confronto con le classiche dinamiche militari-belliche che tanto piacciono a Michael 13 hrs Bay. Tutti elementi che ritroviamo tra le immagini de L’ultimo cavaliere, proprio a partire dall’ambientazione postapocalittica di una Chicago che è chiaramente il centro delle coordinate di questo universo, qui doppiata da una Londra ancora una volta sotto attacco nel cinema popolare recente (tra F8, Butler, La Mummia e i Bond di Mendes…).

You want me to forget, pretend we’ve never met

La nutrita schiera di personaggi “umani” (con recupero del sempre impagabile John Turturro, embargato a Cuba), in un numero di caratterizzazioni che così vasto s’era visto probabilmente solo nel primo film di dieci anni fa, si muove in uno scenario dove ogni elemento che caratterizza lo sguardo di Bay viene messo in scena in maniera isolata, evidenziata, e poi assemblato con il resto, proprio come se il film stesso fosse il primo organismo componibile: di volta in volta, i protagonisti incroceranno consapevolmente e spesso stigmatizzeranno la passione del regista per le musiche tronfie e roboanti, per i ralenti interminabili ed estremi (qui vere e proprie bolle del tempo), per i monologhi patriottardi di Optimus (“ogni volta la pelle d’oca…”).
Così destrutturalista c’era stato ancora una volta solo il terzo film (lo stemma dei cavalieri che s’attacca a Wahlberg diventandone un’escrescenza ibrida recupera esplicitamente l’orologio organico impiantato su LaBeouf in quell’episodio), non a caso quello su cui era intervenuto l’apporto fondamentale di James Cameron.
E qui, tra i mille “creatori” che come ogni volta si possono tirare in ballo alla ricerca di paternità per l’armamentario di Bay, è proprio James Cameron lo sguardo che torna in mente in maniera più prepotente, tra le esplorazioni subacquee di cui sopra, e l’esaltante battaglia finale in una Stonehenge di vette erbose e astronavi simili ad organismi vegetali di sacche e corde (la straordinaria resa di una sorta di Cybertron cellulare), abitate da creature mitologiche in lamiera, che non può che ricordare una Pandora meccanica.
D’altra parte anche Avatar era un tentativo di riavvolgimento e riscrittura dell’evoluzione in chiave ibrida e potenziata, come la controstoria narrata dalle fotografie appese al muro nel castello di Anthony Hopkins, quella sì una serializzazione tra le righe del passato di cui vorremmo ancora vedere sullo schermo ogni tappa.

Titolo originale: Transformers – The Last Knight
Regia: Michael Bay
Interpreti: Mark Wahlberg, Anthony Hopkins, Laura Haddock, Stanley Tucci, Josh Duhamel, John Turturro, John Goodman, Gil Birmingham, Santiago Cabrera, Gemma Chan, Sophia Myles, Mitch Pileggi, Frank Welker, Jerrod Carmichael, Ken Watanabe, Peter Cullen
Origine: USA, 2017
Distribuzione: Universal
Durata: 149′

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