#Venezia73 – Colombi, di Luca Ferri

I film di Ferri sono processi in cui la condanna inflitta è sempre uguale, ed è a vita: è per questo che il dibattimento debba assolutamente seguire un rigore cabalistico, inappuntabile. In Orizzonti

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Lo sguardo di Luca Ferri sembra non poter più uscire dal centro commerciale raccontato nel bellissimo Una società di servizi, in cui l’autore riusciva a dare forma al passaggio del tempo, degli oggetti, degli uomini come sfondo di un’eternità spietata, immobile, in filodiffusione: la fine del pop(olo) negli spazi industriali senza via d’uscita.
Il signore e la signora Colombi di questo nuovo lavoro di Ferri ad un certo punto del loro amore lungo un Secolo sono finiti in un modo o nell’altro in quello stesso grande magazzino giapponese, e ne sono rimasti intrappolati: dietro di loro il fondale è palesemente finto, uno scenario di montagna dipinto e irreale, e i due anziani coniugi siedono in carrozzella ai piedi di un tabellone di quelli del bingo, con i numeri fino a 90, guardando dritti verso l’obiettivo (ci guardano loro, e anche i numeri che si illuminano in sequenza di dieci partendo dal 16).

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I numeri, certo: i film di Luca Ferri sono tutti processi in cui la condanna inflitta alla fine è sempre uguale, ed è a vita, ed è per questo che il dibattimento debba assolutamente seguire un rigore cabalistico, inappuntabile, a colpi di cavilli e note al margine, di entr’acte fatti a pezzi come quello della Cavalleria Rusticana che l’inseparabile Dario Bacis “suona” a singhiozzi con gli strumenti del passato tra un atto e l’altro della biografia di coppia di Giovanni e Annunciata: Giovanni Colombi si esibirà poi anche nella celebre aria “Mamma, quel vino è generoso” dall’opera di Mascagni (insieme ad un’appassionata resa a cappella della straordinaria Credimi di Luciano Tajoli, che ascoltiamo su di un lungo primo piano della consorte).
Il cinema di Luca Ferri non è capace di mentire, anche continuando a praticare l’esercizio della distanza intellettuale che porta a smettere di bere caffè per non avere a che fare con le orrende caffettiere postmoderne: come già succedeva nella sezione più esplosiva di Cane caro, nella quale pareva davvero che la fredda voce narrante dell’automa stesse seriamente commovendosi mostrando delle emozioni “umane”, quasi delle lacrime sgorgate per arrugginire il procedimento meccanico del found footage, così anche Colombi tradisce una tenerezza straziante tra una frase e l’altra del racconto letto con tono da dispaccio da Assila Cherfi (occhio, stavolta a parlare non è un simulatore vocale, a sorpresa).

Chi ha un po’ di familiarità con gli esperimenti di questo infaticabile sabotatore sa bene che altrettanta importanza va data al senso della costruzione pratica, manuale di queste opere, e anche Colombi mostra la tipica ossessione di Ferri per la grana e la resa umorale della pellicola, e l’utilizzo di oggetti di scena e dettagli volti a creare la miniatura disumana di una cartolina d’epoca invivibile, inabitabile.

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