ZEBRA CROSSING. #MDW2018 – Il cinema espanso della Milano Design Week

Siamo sempre più convinti che Salone e Fuorisalone di Milano siano veramente un festival di cinema senza il cinema per come lo conosciamo, ma pregno di cinema per come esso si sta evolvendo

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Dall’alto

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La settimana del design è molto probabilmente il centro dell’anno delle attività meneghine. Neppure le settimane della moda di settembre e febbraio – molto più chiuse in sé stesse – catalizzano allo stesso modo l’attenzione. La dicotomia Salone/Fuorisalone crea invece una specie di enorme cupola invisibile che copre tutta l’area urbana, hinterland compreso (con i suoi preziosi laboratori artigianali che partecipano in qualche modo alla kermesse).

Ora più di prima, ogni anno la sfida si rinnova e viene vinta, con i record macinati dal nuovo polo fieristico di Rho e coi milanesi sempre più coinvolti, e consci che questo “rebelòt” ha comunque un ritorno. A differenza di anni fa oggi le varie istituzioni fanno sempre più rete, e si sente. Tutto il mondo viene a Milano per una settimana in cui tutti organizzano eventi, ospitano persone e provano a risolvere piccoli problemi magari endemici, come il rapporto con le periferie.

 

Un festival di cinema senza il cinema, tra mercato e sperimentazione: il Salone

 

Dopo questa Milano Design Week 2018 siamo sempre più convinti che sia veramente un festival di cinema inconsapevole. Un festival di cinema come Cannes e Berlino (i quali comprendono infatti una parte dedicata al mercato). Un festival di cinema senza il cinema per come lo conosciamo, ma pregno di cinema per come esso si sta evolvendo.

Partiamo dalla parte mercato: il Salone di Rho ormai è una realtà. Il 2018 vede il dato ufficiale di un incremento del 27% di presenze, e abbiamo visto coi nostri occhi cosa significhi. A parte l’enorme massa di gente arrivata e felicemente direzionata (una massa che ha avuto problemi solo con i trasporti regionali in partenza da Rho, ossia le Ferrovie Nord), è importante sottolineare come il Salone, dopo il potente decentramento, inizi sempre più a ritornare centrale nell’immaginario, sia per gli addetti del settore che per la città di Milano.

Tuttavia, se è vero che la settimana del design è una specie di festival del cinema – chiamiamolo cinema “espanso” –, allora ogni pezzo esposto, ogni evento, devono essere visti veramente come un film. Da una piccola lampada da comodino a un grande spazio arredato, come l’ultima cucina Samsung, ciò che vediamo sono vere regie che ragionano di tempi, spazi, schermi, rimandi, attese ed emozioni in modo cinematografico, forti di quanto il cinema abbia pervaso la realtà quotidiana. Certo, questo porta il critico allo sconforto, perché i titoli presentati durante la settimana sono innumerevoli, ben oltre i – per esempio – 134 che verranno presentati a Cannes nel 2018. Tutto ciò nonostante esista anche una selezione, fatta dall’ufficio commerciale dell’Ente, sulla base di criteri da rispettare in modo preciso come in un vero festival. Criteri come la produzione, l’identità dei designer, le dimensioni degli allestimenti, il fatturato dell’espositore, o l’esistenza di esportazione. Forse, se si volesse capire cosa serve al cinema oggi, la capacità di comprendere questi criteri potrebbe accendere qualche lampadina…

Il Salone è certamente un luogo di vendita, ma oggi vuole unire sempre più la vendita alla capacità di rinnovarsi, di sperimentare, di dire cose nuove, di stupire e di aprire nuovi ragionamenti. Il tutto con il solo giudice possibile: il pubblico. Ci piace pensare che la valenza popolare cinematografica esca dai cinefili festival internazionali per rientrare nel polo fieristico di Rho durante la settimana del design.

Se portiamo avanti questo ragionamento, il grado di inconsapevolezza è sicuramente alto, e sfido chiunque a chiedere lumi filosofici dagli espositori di Rho. Ma possiamo comunque dire di essere rimasti cinematograficamente affascinati da come il cinema sia apparso dentro moltissime esposizioni, dalle più semplici dei giovani designer del Salone Satellite (e ricordiamo Porzia Bergamasco – già mente del Milano Design Film Festival – come una degli artefici di tale salone) alle più complesse di marchi come USM, Kartell, Edra etc. Abbiamo avuto conferma di come l’esposizione – anche solo per vendere – oggi non possa prescindere dallo storytelling, dalla concezione narrativa, dalla combinazione di più elementi (in un film le scene, in uno spazio allestito i vari oggetti esposti o la combinazione tra vuoti e pieni), finanche dalla cultura cinematografica, laddove i rimandi alla storia del cinema sono molteplici (dal futuro della fantascienza elettrodomestica di Samsung a situazioni parossistiche come le creazioni del brand italiano Arte in Motion che utilizza veri pezzi di aeroplani come arredi).

Non mancano certamente altri esempi. Edra per esempio portava lo spettatore ad avere il primo sguardo sul proprio allestimento (internamente ricoperto di specchi…) da una finestrella rettangolare che da fuori creava subito un’idea di cinema, di visione incorniciata in uno schermo 16:9 leggermente schiacciato. Il cinema è facile da ravvisare anche dentro i rimandi vitali, e non solo mentali, di altri marchi, da USM che ci riporta bambini, a Samsung che ci proietta in un futuro di oggettistica viva (il suo frigo compreso di tablet attaccato a una delle ante ci è rimasto nel cuore/cervello). Quindi, non si può parlare di totale inconsapevolezza, quanto di sempre più forte presa di coscienza dell’incrocio culturale che gli ambiti stanno avendo, grazie anche all’innovazione tecnologica, che porta facilmente all’innovazione mentale.

 

Il festival cinematografico più anarchico del mondo: il Fuorisalone

 

Alle note liete del Salone seguono purtroppo le note dolenti del Fuorisalone. Abbiamo già raccontato l’atmosfera, e dato un primo sguardo su ciò che significa il Fuorisalone. Con i suoi 1327 eventi (pare), cioè mille e passa film da vedere in pochi giorni su di un’area grande tutta la città, parlare del Fuorisalone è impresa improba, che si può affrontare solo sapendo di essere costantemente in perdita, in mancanza, in ritardo. Sicuramente alla fine mancheranno eventi imprescindibili, mentre talvolta rinnovare la propria fiducia a realtà conosciute può rivelarsi un errore. Per esempio, a parte la bella installazione “Limbo” di Jacopo Foggini, siamo rimasti un po’ delusi dalle scelte di Interni per questa edizione all’Università Statale. Oppure, per quanto riguarda la ricerca di incroci tra cinema e design intrapresa da Zebra, lo spazio di Rossana Orlandi ci è parso più vicino al design-scultura che alla contaminazione col video. Di tale luogo, sapendo che ogni piccolo pezzo mostrato rappresenta una storia e che il cinema entra sempre nella creazione dell’allestimento, abbiamo apprezzato di più la qualità dei dibattiti organizzati, momenti capaci di chiarire quanto siano vitali e necessari spazi come questo.

Ma in questa oscillazione è molto presente l’anima del “Fuorisalone”. Se il Salone procede come un carro armato, incrementando successi dall’apertura della nuova struttura nel 2005 fino ad oggi, il Fuorisalone è per sua natura anarchico, libero, e appunto oscillante – anche nella stessa edizione – tra alto e basso, bello e brutto, vuoto e pieno. Questo è positivo, e se lo si vedesse come un festival cinematografico sarebbe uno dei festival di cinema più gioiosamente anarchici del mondo, senza una reale programmazione, senza un criterio, con una capacità di improvvisazione fantastica, che andrebbe veramente a bucare la “mediatezza” del film festivaliero preparato ad hoc. Un festival capace di presentare un cinema diretto, un cinema di regia senza la regia, fatto da registi inconsapevoli ma temerari, che uniscono intuizioni, spunti, slanci e presentano lavori agendo in leggerezza e velocità. Un festival in cui non si tratterebbe più, quindi, di “accendere un quadrato” (cit.) ma di accendere il mondo intorno a noi, e in cui la cinefilia uscirebbe finalmente dallo schermo per entrare nella vita diventando pensiero fondante. Questa capacità di improvvisazione e ingegnosità è la base sostanziale del Fuorisalone e non verrà mai meno neanche in anni di crisi e di compromessi con il denaro.

Il tema denaro sta infatti diventando cardine per il Fuorisalone, in quanto l’evento sta attirando ogni anno migliaia di visitatori e quindi moltissimi, moltissimi soldi, che come sempre comportano anche lati negativi.

Per esempio, quest’anno la logica del profitto ha colpito pesantemente Lambrate. Partendo dal fatto che il Fuorisalone si dipana in distretti, che possono apparire e sparire a seconda della contingenza di anno in anno (quest’anno teoricamente erano dodici), il distretto Lambrate, che dal 2010, grazie al lavoro dell’agenzia italo-olandese “Organisation in Design”, aveva visto una reale e vivifica esplosione della zona periferica omonima, è stato drasticamente ridimensionato. Come spiegato poi dai diretti interessati, l’agenzia ha ritenuto di concludere l’esperienza a fronte di costi divenuti troppo onerosi, causati da continui rialzi di affitti nella zona, decidendo quindi di spostare i propri designer nella più centrale zona di viale Abruzzi, dentro a un palazzo usato in precedenza dalla Facoltà di Farmacia. È anche paradossale come le sedi usate dall’agenzia vengano comunque chiamate “VENTURA projects ” (Centrale, Future, etc.) laddove via Ventura sta comunque a Lambrate. Questa decisione, indubbiamente sensata dal punto di vista economico, ha significato però un ridimensionamento pesante dell’interesse dei visitatori per la periferia di Lambrate, che grazie al Fuorisalone era invece stata riscoperta. La divisione del Fuorisalone in distretti porta inevitabilmente a scoprire angoli della città che non si conoscono e a rivalutare anche mentalmente luoghi periferici spesso in disuso, perché lontani, scomodi o adibiti “solo” alla produzione manifatturiera. Per come era concepito, ciò che si mostrava nel distretto Lambrate riportava l’attenzione sulla costruzione del prodotto in termini di innovazione e sperimentazione, spirito alla base del design, ed è stato un peccato perderlo.

 

Il particolare dell’oggetto: Nendo

 

Forse quindi il Fuorisalone deve soprattutto stare attento a sé stesso. Ormai la giostra è enorme e il giro di soldi pure, si rischia il flop e soprattutto la delusione da ripetizione. Se il Salone di Rho molto “semplicemente” deve vendere, il Fuorisalone si situa su una linea molto più fragile e pericolosa, che può far perdere l’equilibrio. Un esempio su tutti: l’installazione di Nendo in Tortona. L’anno scorso l’installazione di Nendo per Jill Sander era stata mirabile. La delicatezza, l’equilibrio, la leggerezza del tocco minimale di Nendo avevano portato veramente a vedere un film senza che il film ci fosse. Giustamente, Gisella Borioli ha voluto porre Nendo al centro dello show del suo Superstudio, nello spazio che l’anno scorso era stato occupato in modo altrettanto eccezionale da LG (che ci aveva letteralmente proiettato dentro “Incontri ravvicinati del terzo tipo” fatto installazione). Forti di questa attesa la visione di Nendo è stata importante ma non incisiva quanto quella dell’anno scorso. Ovviamente si tratta di gusti e di scarti minimi. Il percorso creato da Nendo per il suo Forms of Movement è bellissimo, ma lascia la sensazione di ripetizione, ha degli slanci straordinari (l’inizio e soprattutto la sala delle clessidre) ma poi rimane lì.

Forse però stiamo abituando – o ci stanno abituando – l’occhio, ed è un male. Il Fuorisalone serve per aguzzare la vista scrutando il futuro, vedere la vita negli oggetti, sentire le emozioni che nascono dalla geometria. Ma se l’equilibrio è fragile si cade facilmente nella maniera, ed è un pericolo da temere. In generale quest’anno il Fuorisalone ci è parso un pochino manierista e ripetitivo, e quando alla fine ci siamo trovati persi dentro i sacri palazzi delle famiglie nobili milanesi – aperti per l’occasione – abbiamo sentito un brivido di vuoto lungo la schiena. Mentre in testa continuava a pulsare il ricordo del Salone di Rho che scopriva la possibilità di liberarsi dal giogo del mercato, facendo sognare a occhi aperti.

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