Anora, di Sean Baker

Un altro film sulla deriva del presente. Il sogno è diventato pura finzione. Ma Baker si lascia andare ai deliri di una notte alla Landis. Fino a un magnifico, doloroso finale. CANNES 77. Concorso.

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Dopo il matrimonio a Las Vegas, Anora annuncia di voler lasciare lo strip club in cui ha lavorato fino a quel momento. E dice a un’amica che per il viaggio di nozze dovrebbe scegliere Disneyland. È quello che aveva sempre sognato da bambina, immaginando di diventare principessa. La mente, è chiaro, corre subito a The Florida Project, che, alle porte di Disney World, raccontava di una comunità surreale e di una vita non esattamente principesca. Ma è, in generale, uno dei temi fondamentali di Sean Baker. Le persone  tentano o immaginano di andare oltre gli affanni di sempre, ma il sogno che hanno in mente ha assorbito tutte le scorie possibili di un modo di vivere e di un immaginario artificiali e dopati. È diventato un sogno di cartone e plastica. Differenziabile e riciclabile. O l’imitazione di un sogno. Pura finzione.

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Sì, si può tranquillamente chiamare in causa Cenerentola a proposito del nuovo film di Baker. Ma Anora è una Cinderella infinitamente più smaliziata. O meglio, sospesa tra la malizia e l’ingenuità più infantile. Perché non ci vuole molto a capire che il suo miraggio è destinato a dissolversi in un istante, come le preannuncia l’invidiosa e stronza rivale dello strip-club: “vi do due settimane al massimo”. È chiaro sin dal primo momento che Ivan, il ricchissimo figlio di un oligarca russo che va in fissa per lei, vive tutto come un gioco e un capriccio. E, soprattutto, non ha alcun margine di scelta effettiva rispetto alla famiglia. Ma la ragazza, convinta di essere arrivata a una svolta, non se ne rende conto. O meglio, non vuole e non può vedere. Abbagliata dal lusso, dai soldi, dai quattro carati, dalle pellicce di zibello russo.

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Sean Baker porta fino alle estreme conseguenze il suo discorso sulla deriva oscena del presente. Quella per cui la ricchezza è sinonimo di felicità. “Io sono sempre felice”, continua a ripetere Ivan, mentre getta via i soldi di papà. Ma è proprio così. Ed è davvero questa la felicità per Anora, ciò che vuole? E l’amore? Più di una persona glielo ripete: “lui non ti ama davvero”, “tu non lo ami davvero”.

Per Sean Baker non ci sono dubbi. L’osceno sta nell’arroganza dei soldi, nell’ostentato e sprezzante atteggiamento della moglie dell’oligarca, nella mancanza di responsabilità del figlio. Non certo nel mettere in mostra e vendere il proprio corpo, come fa Anora, che riesce a mantenere una dignità e un’integrità ben più salde del Mickey di Red Rocket. Forse perché ha un orizzonte di riferimento, seppur sbiadito. Anche se si fa chiamare Ani, perché il suo vero nome è troppo uzbeko, troppo legato alla cultura d’origine della nonna, che ha sempre rifiutato di imparare l’inglese. E in America non ha certo senso perdere tempo con le stronzate dei segni, dei significati. Eppure esiste un mondo di nonne, una storia di fatica, di immigrazione, di radici e di legami da non spezzare, nonostante le contaminazioni e gli affanni. La stessa storia da cui proviene Igor, il giovane scagnozzo russo. Che, infatti, è l’unico capace di avere attenzione. Non a caso, dal momento in cui entra in scena, sembra iniziare un altro film. Yuriy Borisov, imponente come sempre (Il capitano Volkonogov è scappato), magnetizza buona parte degli sguardi, fino a quel punto monopolizzati dalla bravissima Mickey Madisov. Ed è proprio in questa seconda parte che Sean Baker libera la sua storia tra le spiagge di Coney Island e le strade di Brighton Beach. Si lascia andare alle assurdità di un giorno e di una notte perfette per un film di Landis. Fino a sciogliersi in un magnifico, doloroso finale.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
4
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Il voto dei lettori
4 (3 voti)
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