#Berlinale68 – La terra dell’abbastanza, di Fabio e Damiano D’Innocenzo

Il film dei D’Innocenzo è sincero e istintivo, libero da schemi mentali e dotato di una sua unicità, fatto straordinario in questo periodo di sovrabbondanza di film malviventi. Panorama

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C’è una frase che colpisce nell’esordio dei fratelli Fabio e Damiano D’Innocenzo. Quando Alessia (la madre del protagonista Mirko) sgrida il figlio perché sa che fa parte di un giro di affari sporchi. Lui la accusa: “Però come te li prendi i soldi”. Lei risponde “A me i soldi mi servono, se li trovo me li prendo“.

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Questa frase, pronunciata nel bel mezzo di una litigata fra una madre e un figlio, è esplicativa tanto quanto il titolo del film, La terra dell’abbastanza. Cresciuti nella periferia romana, Mirko e Manolo sono amici fin dalle elementari. Una sera investono un uomo per sbaglio, e questo incidente si trasforma in una svolta, in qualcosa di comodo: l’uomo ucciso è infatti un pentito del piccolo clan dei Pantano, malavitosi della zona, e doveva essere fatto fuori. I due giovani possono entrare nel clan.
La questione dell’abbastanza, è proprio il punto focale: è abbastanza quando si accetta qualcosa che serve, indipendentemente dalla sua qualità o quantità. Nella terra dell’abbastanza dove si ritrovano a vivere Mirko e Manolo, non c’è nulla di epico, non c’è la voglia di arraffare, di avere tanto e in modo semplice, non c’è  sfarzo, non c’è vizio. Ci sono due ragazzi di diciotto anni che entrano in un mondo malavitoso e squallido, nel quale agiscono privi di una reale volontà. Costretti da un evento principale ad essere in balia di tutti quelli successivi, destinati ad andare inesorabilmente nella direzione sbagliata.

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Sembra che questo discorso dell’abbastanza riguardi (positivamente)  anche il modo dei registi di raccontare la vicenda: da pochi elementi esplode un mondo triste, senza musiche pompate, accessori criminali o  parabole di ascesa e inevitabile discesa. È tutto disperatamente semplice. C’è spesso un jazz stanco e sconsolato, le notti di vizi mancano, la storia non le concede ai suoi protagonisti. E proprio in questa riduzione al minimo c’è un tratto stilistico estremamente sincero e cristallino, il racconto di una parabola triste, due ragazzi dal futuro strappato e la sottotraccia di una periferia e di un’esistenza priva di dignità. I fratelli D’Innocenzo hanno un’idea molto chiara di regia, prima viscerale e solo dopo mentale, con totali colmi di parcheggi vuoti  e primi piani invasivi, attaccati ai visi dei giovanissimi protagonisti, deformati dagli avvenimenti.  Due presenze, ambiente e personaggi, vanno spontaneamente di pari passo senza prevalere l’uno sull’altro, tutto è parte di questa triste storia, magistralmente interpretata dai promettenti Andrea Carpenzano e Matteo Olivetti.

Molto spesso il pensiero straborda dalle opere prime, il ragionamento dietro le immagini è lampante, le intenzioni sono spesso fin troppo rintracciabili. Ma il film dei registi romani non cade nel comodo tranello di spiegarsi in simboli o messaggi, e questo perché il loro è un film fondamentalmente  istintivo, che si fa forte di una bravura di getto. Legato ai riferimenti e sicuramente devoto al Cinema (non pensare subito a Non Essere Cattivo è impossibile) La terra dell’abbastanza è  dotato di una sua unicità, fatto straordinario in questi tempi sovrabbondanti di film malviventi. In fondo, se si vuole ragionare per una (discussa) differenza, l’esordio dei fratelli è un film d’autore e non di genere, ma riesce pienamente a distaccarsi dall’intenzione di un’autorialità. Forse perché è un film giovane o perché i due fratelli, come dice  lo scagnozzo di Angelo Pantano riferendosi a Mirko e Manolo, hanno il dono di sparare  perché non ne hanno consapevolezza. Lo fanno, non ci pensano troppo, e basterà il tempo a raffinarli e a rendenderli, con molta probabilità, degli ottimi cineasti.

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