#Berlinale70 – There Is No Evil, di Mohammad Rasoulof

Quattro storie apparentemente indipendenti ma invece connesse, in un film politico limpido che ha l’impeto di un grido e, forse, nel finale, apre uno squarcio di speranza. In Concorso.

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Mohammad Rasoulof è uno dei cineasti iraniani osteggiati dalle autorità. Nel 2010 è stato condannato a sei anni di carcere per aver girato senza permesso e poi la pena è stata ridotta a uno. Nel 2017 gli è stato ritirato il passaporto di ritorno dal Festival di Cannes dove aveva vinto la sezione Un certain regard con A Man of Integrity, film per il quale deve ancora scontare un altro anno di detenzione dopo un processo del 2019. Del resto il regime del proprio paese è spesso al centro del suo cinema. Nella protagonista di Au revoir, sospesa dalla sua professione di avvocato perché impegnata nella difesa dei diritti degli attivisti e costretta ad affrontare la sua gravidanza in totale solitudine, già si rintracciavano dei chiari riferimenti autobiografici. Così come è una lotta contro il potere è quella del protagonista di A Man of Integrity, un uomo di un remoto villaggio nel nord dell’Iran che deve fronteggiare una società privata che, con l’aiuto del governo, vuole impadronirsi della zona. There Is No Evil è un grido contro ogni forma di autoritarismo, già potentemente sottolineato dalla presenza della nostra canzone popolare Bella ciao cantata durante una fuga liberatoria.

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Il film è composto da quattro storie, apparentemente indipendenti ma in realtà intimamente connesse. Heshmat è un marito e padre esemplare. Ma ogni mattina si alza molto presto. Dove va? Pouya è un militare che deve uccidere un altro uomo ma non vuole farlo. Javad raggiunge la ragazza che ama per il suo compleanno ma qualcosa lo tormenta. Bahram è un medico che vive da tempo in un luogo isolato nelle montagne e la visita di una nipote lo mette davanti a un episodio del passato che non può più nascondere.

Il segreto accomuna i quattro protagonisti ed è già evidente nell’inquadratura iniziale in un garage. Sono personaggi che nascondono qualcosa agli altri, che possono entrare in crisi proprio perché entra in gioco il contrasto tra la propria morale e il dovere. Ci si chiede fino a che punto può spingersi la libertà individuale sotto il regime. La pena di morte è affrontata direttamente in un cinema che non prende mai scorciatoie ma arriva sempre dritto al punto. Cambiano gli scenari: la città, la montagna, una casa vicino al fiume, gli interni claustrofobici militari. C’è sempre una luce sinistra che contamina i luoghi. Il riferimento alle ombre del regime è fin troppo evidente. Al tempo stesso sono tutti spazi restrittivi, che non concedono vie di fuga. Lo si può vedere già nelle scene in mezzo al traffico della prima storia di Heshmat che rimanda per certi versi a Taxi Teheran di Panahi. O anche nella potente sequenza in cui Pouya accompagna il condannato a morte ed è legato a lui con le manette.

Sono vicende dure, di resistenza quelle di There Is No Evil, titolo internazionale di Sheytan vojud nadarad. Dove gli epiloghi possono essere misteriosi, liberatori, devastanti e aperti. Ogni incontro ha un effetto. In alcuni casi c’è un sospetto di prevedibilità: la reazione di Bahram dopo che vede la foto dell’uomo di cui si sta per celebrare il funerale; l’espressione di Bahram mentre sta aspettando la nipote all’aeroporto. In realtà invece le storie sono lineari, limpide e potenti. Di ognuna colpisce il modo con cui Rasoulof le affronta e come lascia emergere i conflitti interiori. Dopo una continua sensazione di soffocamento, nel finale There Is No Evil respira. In quel campo lungo da lontano alla Kiarostami c’è forse una speranza, un segno che il cinema di Rasoulof potrebbe ripartire.

 

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
4

Il voto al film è a cura di Simone Emiliani

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Il voto dei lettori
3.25 (4 voti)
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