Divorzio a Las Vegas, di Umberto Carteni

La commedia romantica di Carteni evoca i padri nobili della cinematografia statunitense ed allo stesso tempo se ne affranca tramite lo scontro tra opposti tipicamente italiani

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“Quello che succede a Las Vegas, resta a Las Vegas” è un motto che il cinema industriale, arte del visibile per antonomasia, non ha mai voluto, e nemmeno potuto, eseguire. Nella città edificata in mezzo al deserto del Nevada per scopi antropici di bassa produttività – riciclo di denaro generato altrove e destinato all’accumulo personalistico – la narrazione audiovisuale è stata da subito uno dei modi più impattanti per perpetrare a livello di immaginario globale l’intrinseca mitologia nietzschiana fondata sull’assunto che solo l’eccesso di forza (capitalistica?) è dimostrazione della forza. E così attraverso un racconto per immagini sempre più estreme di hangover incredibili, Las Vegas negli ultimi 20 anni è diventato il definitivo raccoglitore delle spinte più irrazionali dell’individuo medio che dopo il necessario percorso distruttivo saprà creare un nuovo tipo di ordine, ovviamente ancora una volta familiare.
Divorzio a Las Vegas di Umberto Carteni fa sua questa filosofia cesellata dagli statunitensi riuscendo ad instillare al suo interno alcuni corollari tipicamente peninsulari. Connotando, come da tradizione nostrana, in senso geografico la sede della separazione contrattuale tra due sposi, il terzo film in solitaria del regista di Studio illegale intende infatti espanderne la trattazione giocando sia con gli stereotipi legati ai protagonisti Lorenzo ed Elena sia con quelli ambientali. Una specie di divorzio all’italiana, quindi, ma a Las Vegas dove solo sposarsi a 18 anni in una delle tante wedding chapel sotto effetto di peyote è facile mentre a distanza di vent’anni risulterà quasi impossibile rimediare a quell’errore di gioventù. Seppure faccia leva per larga parte su una contrapposizione tra opposti caratteriali che tra poco esplicheremo è interessante notare come il film di Carteni manchi, per fortuna, d’innocenza di visione e faccia trasparire con nettezza questa assoluta asimmetria della burocrazia a stelle e strisce, lasca in alcuni casi e tremendamente predatrice (le continue multe pecuniarie usate per dirimere qualunque tipo di controversia civile) in altre. L’intermediazione culturale del cinema statunitense opera su Divorzio a Las Vegas su due livelli: quello superficiale con le battute citazionistiche e perfino interi snodi di trama affidati a successi come Fandango, di Kevin Reynolds, ed uno più profondo che fa sussumere al film le aporie di una società di cui la città dei casinò è l’esempio più pacchiano ma senza dubbio più efficace. Proprio, e forse verrebbe da scrivere solo, all’interno di una bolla di contraddizioni come Las Vegas l’amore tra gli antitetici Lorenzo ed Elena poteva trovare terreno fertile per sbocciare. Lui è un ghost-writer napoletano che scrive discorsi incuneati tra interscambiabili “onestà” e “trasparenza” per politici condannati penalmente; lei cerca di conciliare il suo imminente matrimonio con il broker di successo Giannandrea (il confine tra una sorta di name-shaming e altissima tradizione comica letteraria è veramente labile) con una carica dirigenziale di alto livello presso una società energetica. Quando Elena scoprirà che prima di coronare il suo sogno d’amore dovrà ottenere l’annullamento della bravata giovanile compiuta con Lorenzo durante una vacanza studio negli Stati Uniti le toccherà obtorto collo recarvisi per rimediare. La sceneggiatura del film affianca alla storia principale quella secondaria tra i rispettivi amici dei due protagonisti creando una struttura ad incastri che se da un lato rende più dinamico l’intreccio dall’altro lo indirizza verso un lieto fine altamente prevedibile: i nodi in opere del genere esistono solo per essere sciolti.

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In un film basato sulla continua riscoperta di lati dimenticati della propria personalità si rivela un inaspettato piacere tornare a sorridere senza remore di fronte alla mancata sudditanza battutistica MeToo. In particolare, l’altrove scivolosa rappresentazione del maschio alfa che ordina alla sua nuova fiamma di lavare i piatti perde qui qualunque tipo di sovra-lettura femminista grazie all’indolenza forse mai così divertente di Ricky Memphis, pigro e coatto come sempre ma anche delicato e domesticamente avveduto nella continua ricerca di piani tariffari telefonici convenienti. Tale coraggio di scrittura è però circostanziato a questa sotto-trama perché per gran parte della sua durata Divorzio a Las Vegas sceglie di non rinunciare al romanticismo della commedia alla Nora Ephron, espressamente citata in due passaggi. Se ne replicano situazioni, modelli e strutture ma anche i limiti, rintracciabili in un happy ending favolistico che cerca di ammiccare alle consapevolezze di genere dello spettatore dato che abbandona senza reticenze gli ultimi laccioli della verosimiglianza per gettarsi nell’oceano del segno cinematografico. La commedia quindi come sogno pacato, come fuga dalla routine verso una follia controllata, come riscatto del borghese verso l’aristocratico, della classe media contro quella ricca, come riappropriazione forzata della fanciullezza trascorsa e di una relazione lunga 9 ore tatuata sul braccio e mai cancellata perché l’Elena originale s’ha da tornare sulle sponde dell’Ellade nostalgica come pretende l’illusione del primo grande amore. Il ritorno ad una nuova normalità dopo la conoscenza di una vita altra ma avvertita già nel suo svolgimento come impossibile – la carrellata di Elena sui giochi d’acqua delle fontane del Bellagio, la vincita ai dadi, la notte brava con le mutande appese al lampadario sono più tappe iconografiche che esperienziali – è il destino degli italiani protagonisti del film perché che senso ha provare a cucinare un primo con aragosta e verdure quando “la cacio e pepe ti viene così bene”?. Se per gli altri Las Vegas è luogo di estrema perdizione, crimine e morte a noi invece serve per il coronamento di una delle più grande utopie casalinghe:il matrimonio a 4 con i nostri migliori rispettivi amici.

Regia: Umberto Carteni
Interpreti: Giampaolo Morelli, Andrea Delogu, Ricky Memphis, Grazia Schiavo, Luca Vecchi, Vincent Riotta, Gian Marco Tognazzi
Distribuzione: 01 Distribution
Durata: 90′
Origine: Italia, 2020

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3

Il voto al film è a cura di Simone Emiliani

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Il voto dei lettori
1 (2 voti)
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