DocLisboa 2022 – John Zorn secondo Mathieu Amalric

I tre film di Amalric dedicati a John Zorn vengono riproposti dal DocLisboa. Un lavoro imponente, fuori categoria, che racconta la musica un grande artista e la storia di un incontro

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John Zorn è uno dei musicisti più influenti della scena contemporanea. Strumentista e compositore “fuori categoria”, che spazia dal jazz al rock, passando per la tradizione ebraica, le colonne sonore per film, il metal, il grindcore, la musica più classica. In quasi quarant’anni di attività ha pubblicato decine di album, anche con l’etichetta indipendente da lui rilevata negli anni ’90, la Tzadik Record. Ma più che il racconto della sua leggenda, questa è la storia di un incontro…

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Nel 2009, Mathieu Amalric fa da voce narrante alla prima francese di Shir Hashirim alla Grande Halle de La Villette di Parigi. Subito dopo un’emittente televisiva gli commissiona un ritratto su Zorn. Ma è solo il pretesto, l’inizio di una lunga frequentazione e di un’amicizia ormai decennale. Ogni volta che può, Amalric segue Zorn, lo filma durante i concerti, le prove, le sedute di registrazione e di missaggio, nei momenti di pausa e di distensione, in giro per New York o nelle più svariate città. Raccoglie così una gran quantità di materiale di ripresa che confluisce in un lavoro imponente, suddiviso in tre capitoli: Zorn I (2010 – 2017), Zorn II (2016 – 2018) e l’ultimo, recentissimo Zorn III (2018 – 2022). Al di là delle differenze di impostazione dei tre film, si tratta per lo più di immersioni improvvise e improvvisate, a tratti caotiche, nell’universo creativo di John Zorn. Anch’esse “fuori categoria”, oltre ogni disegno preconfezionato, i binari consueti del documentario ritratto, la correttezza filologica e cronologica.

Zorn I, in particolare, è il titolo più aperto e incontrollato della serie, una costellazione di momenti e frammenti raccolti nell’arco degli anni. Una specie di libera composizione di immagini e suoni stratificati, dove gli spazi si aggrovigliano e la linea temporale impazzisce in una schizofrenia di costanti saliscendi. A tracciare le connessioni ci pensano le note, il movimento delle esecuzioni e delle performance. E Zorn, con la sua risata contagiosa, appare come un demiurgo indemoniato e beffardo, animato da un entusiasmo disarmante. Che prima ancora di essere il segno del genio, racconta il piacere della pratica e la fiducia incrollabile nel gioco musicale. Un approccio artigianale, se si vuole, in cui contano la prova e l’esercizio. Ma in cui l’intesa con gli altri è sempre nel punto d’incontro tra la libertà dell’improvvisazione e il metodo. Sì, certo, i performer che accompagnano Zorn sono tra i grandi della musica contemporanea, Bill Frisell, Joey Baron, Marc Ribot, Dave Douglas, Greg Cohen, Bill Laswell, Brian Marsella… Ma al di là dei mostri sacri, rimane la sensazione che alla base di tutto ci sia un’esigenza insopprimibile di divertimento e di passione gioiosa.

Così la creazione di musica diventa un atto magico”, dice John Zorn nel secondo film della serie. Ed è proprio qui che Amalric prova a concentrarsi con più rigore sul metodo. Tanto da trascrivere e visualizzare le parole di Zorn come un commento alle immagini e ai suoni. Sembrano quasi materializzarsi i versi di un libro iniziatico, che introduca ai misteri dei gesti e della pratica. Del resto il riferimento al magico è costante: “linguaggio magico”, “armi magiche”, “rituali”. Anzi, a un certo punto Zorn parla di “Magick”, con un richiamo più che scoperto ad Aleister Crowley. Si dischiude così tutta quella dimensione esoterica del suo lavoro, che da sempre rimette in circolo un immaginario mistico e spirituale, fatto di miti e insegnamenti segreti. A cominciare dalle sue radici ebraiche, dalla cabala e dalla demonologia richiamate dai titoli degli album (in particolare quelli con il gruppo Masada), fino ai riferimenti allo gnosticismo. Il recupero di una tradizione culturale e musicale, l’improvvisazione e la sperimentazione diventano così un affare profondamente spirituale.

Certo, Amalric si tiene rispettosamente a lato rispetto a tutto questo universo iniziatico. Non entra, non chiede e non approfondisce. Più attento all’atmosfera che alla logica, al tono e allo spirito del processo creativo, se ne sta in disparte, rapito e curioso. Ma nascosto. E sembra quasi rubare quelle tante immagini sghembe, traballanti, che seguono una prospettiva assurda, ma non per questo meno efficace rispetto alla correttezza grammaticale. Anzi… Free jazz. Poi ogni tanto interviene con una domanda, un commento, un’affermazione, un’apparizione improvvisa. Ma sempre con pudore, quasi con timore reverenziale. Dove entra più decisamente in campo è in Zorn III, interamente incentrato sulle prove dell’opera Jumalattaret e sugli estenuanti esercizi vocali di Barbara Hannigan. Amalric qui fa da intermediario e presta la voce alla corrispondenza tra Zorn e il soprano. Ed è tutto un susseguirsi di timori, dubbi, incertezze, ipotesi interpretative, di errori e intuizioni. Tra i tre film, questo è il più concentrato, claustrofobico, fisso su un punto, sullo sfiancante lavoro di preparazione, sulla fatica del processo espressivo. Ma alla fine, a sciogliere tutti nodi, come sempre è il sorriso trascinante di John Zorn. Che ribadisce la vocazione profondamente umanista della sua visione, fondata sulla gioia della condivisione.

Guardo al mondo e vedo il caos, e questa è una specie di formula per restare outsider. Ma tu non vuoi essere escluso, vuoi appartenere a qualcosa… Hai bisogno di amicizia, di mangiare e bere, hai bisogno di un buon posto per dormire. Vuoi essere compreso nonostante le cose un po’ difficili che fai, vuoi che il tuo lavoro sia apprezzato. Vuoi essere amato. È il nostro tormento”.

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