DOCUSFERA #1 – Incontro con Giovanni Cioni, il vincitore del Festival dei Popoli 2021

Per la rassegna Docusfera di Sentieri Selvaggi, il nostro incontro con Giovanni Cioni alla vigilia della sua vittoria al Festival dei Popoli con il suo ultimo film. Il racconto della chiacchierata

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Dopo l’incontro con Mimmo Calopresti, prosegue la seconda settimana dal progetto DOCUSFERA, promosso dalla redazione di Sentieri Selvaggi e realizzato con il contributo e il patrocinio della Direzione Generale Cinema e Audiovisivo – Ministero della Cultura e della regione Lazio, e deputato alla diffusione del cinema documentaristico italiano, con l’intervento di uno dei più interessanti registi del panorama del cinema del reale, Giovanni Cioni, il quale offre acute delucidazioni sui metodi di lavoro alla base dei suoi film. Cioni ha appena vinto l’edizione 2021 del Festival dei Popoli con il suo Dal pianeta degli umani (qui gli altri premi della manifestazione, tra cui L’età dell’innocenza di Enrico Maisto).
L’incontro inizia con la visione di Non è sogno, film che indaga la questione della verità all’interno di un carcere, in merito alla quale il regista presenta la sua peculiare visione: “nel momento in cui ti trovi ad operare all’interno del cinema del reale, ti confronti, di conseguenza, con la responsabilità della rappresentazione del reale. Personalmente trovo che il documentario non sia, semplicemente, un mezzo tramite cui portare allo spettatore una prova, ma un espediente attraverso il quale diviene possibile interrogarsi su tutti i vari strati e livelli del reale”. Per Cioni, infatti, “viviamo in un mondo dove il reale è fabbricato dalla rappresentazione che noi ne diamo, motivo per cui è necessario scegliere una via clandestina, scartando vari livelli, al fine di arrivare ad una verità particolare”. Sempre in merito alla questione della verità, il regista, relativamente al suo precedente film Dal Ritorno, dove un prigioniero dei tedeschi, Silvano, rammenta la propria straziante esperienza nel campo di Mauthausen, sostiene che “c’è sempre un’altra verità nel vissuto di un sopravvissuto, ovvero l’idea che qualcuno si senta completamente circondato dall’incredulità. Nel preciso momento in cui Silvano racconta la sua vicenda a Mauthausen, sembra che a venire fuori sia una storia raccontata da un’altra persona, un racconto che, defluito in un’altra dimensione, consente di comprendere, da una prospettiva diversa, la storia di un sopravvissuto. Era proprio questo quello che desideravo indagare con quel film”.

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Ritornando alla metodologia di lavoro messa in atto nel processo di produzione di Non è sogno, Cioni sostiene che la sua intenzione non è mai stata quella di realizzare un film sui detenuti, ma sulla “società, dal momento che il carcere non è nient’altro che uno specchio della stessa. Per questo motivo, in fase di riprese, ho voluto realizzare un vero e proprio “spazio di gioco” insieme ai carcerati, ricreando, ad esempio, una scena da un film di Pasolini, in modo tale da consentire la costituzione di uno spazio di comunicazione tra tutti i partecipanti. Non sono io, in quanto regista, a dover portare, dall’esterno, il mio sguardo sul mondo interno. Il mio compito, invece, è semplicemente quello di contribuire alla formulazione di uno spazio di libertà, dove ci sia davvero qualcosa che succede tra tutti noi”. Questo ha permesso al filmmaker di indagare ciò che gli interessava veramente, ovvero “il rapporto tra il mondo interno, quello dentro al carcere, e il mondo esterno, una relazione continuativa che si configura come una spirale senza fine”. Relativamente alla natura dello spazio di libertà, egli aggiunge che “le opere sono una realtà creata con le persone, una dimensione che rompe con qualsiasi schema prefisso, come con l’inquadratura stessa, che funge, in taluni casi, da “prigione reale” nella quale sono rinchiusi i partecipanti. Per questo motivo ciò che davvero voglio indagare non è solo l’inquadratura, ma il fuori campo, ovvero tutto ciò che immaginiamo a partire dalle immagini”.

Nel corso della conversazione, uno dei temi di cui più si è discusso è stato sicuramente quello della “ripetizione”, dal momento che per Cioni “la variazione non solo presenta un ritmo importante (con il cinema che è un’arte del ritmo e del tempo), ma permette di far acquisire alla cosa ripetuta una nuova dimensione, consentendole, dunque, di crescere e di portare il racconto verso nuove direzioni. Per questo motivo, in fase di lavorazione, non procedo mai seguendo un percorso già tracciato, ma mi metto nella posizione di non sapere nulla. Solo in questo modo ho la possibilità di lavorare sugli elementi, come la ripetizione o la rarefazione e decomposizione degli strati dei vari livelli, che danno vita ad un viaggio, alla fine del quale sono in grado di rimettere insieme tutti quegli elementi emersi nel percorso”. Da questo punto di vista, infatti, in relazione al suo specifico posizionamento all’interno del viaggio, Cioni ritiene che “per trovarsi è necessario prima perdersi, accettare di liberarsi anticipatamente della conoscenza dei dettagli del film. Io, di fatto, non mi considero una guida per lo spettatore, ma sono, in realtà, il primo spettatore, al punto che spesso ritaglio per me stesso un personaggio di finzione, come nel caso di In Purgatorio dove le soggettive mi equiparavano ad un fantasma tra le vie della città di Napoli. Ciò che più desidero nei miei film, è di portare le persone in questo viaggio, in questa avventura, e smarrirsi per poi ritrovarsi. Non è un caso che, nel momento in cui riguardo i miei film, sia in fase di montaggio, sia una volta terminati, non mi sembra di ricordare alcuni filoni e segmenti di cui si è composto questo viaggio, perché il film ha sempre una sua vita”.

In coda, Cioni conclude l’intervento ricordando le modalità con cui sono stati selezionati i partecipanti nelle fasi preparative di Non è sognoPrima della lavorazione vera e proprio, ho tenuto un incontro preliminare nel carcere dove ho spiegato il senso del dialogo iniziale su Cosa sono le nuvole, ma sulla scelta dei partecipanti non avevo il pieno controllo. La selezione degli stessi, infatti, è caduta sugli educatori e sulle guardia. Il mio compito, invece, era quello di tenere insieme quel gruppo selezionato, prestare la dovuta attenzione a tutti i carcerati in egual modo, evitando di creare tra loro incomprensioni, coordinare le situazioni e decidere cosa avremmo svolto tutti insieme, senza escludere nessuno”.

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