DOCUSFERA #1 – La maglietta rossa. Incontro con Mimmo Calopresti

La rassegna Docusfera di Sentieri Selvaggi presenta il documentario dedicato al tennista Panatta diretto da Mimmo Calopresti. Ecco cosa ci ha raccontato il regista

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Terzo incontro, dopo quello con Eleonora Mastropietro e con gli autori Francesco Clerici e Filippo Ticozzi, all’interno del progetto Docusfera, promosso da Sentieri Selvaggi e realizzato con il contributo e il patrocinio della Direzione generale cinema e audiovisivo – Ministero della Cultura e della Regione Lazio, che offre una visione del cinema documentario italiano. L’evento comincia con la proiezione del documentario La maglietta rossa del 2009, diretto da Mimmo Calopresti, che racconta l’Italia di Adriano Panatta, leggendario tennista che, indossando una provocatoria maglietta rossa, vinse la Coppa Davis nel 1976 in Cile, davanti a Pinochet.

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Dopo la proiezione, il regista che ha composto i ricordi di un campione ossessionato dalla vittoria, tratteggia il quadro del suo cinema in un dibattito moderato da Carlo Valeri che lo esorta a raccontarci come nasce l’idea di fare un documentario su Panatta e sul tennis. “L’idea ruota tutto intorno ad Adriano Panatta. La possibilità di fare un racconto che s’ intitola La maglietta rossa si realizza quando Adriano mi racconta la storia della maglietta che aveva indossato durante la finale della Coppa Davis in Cile nel 1976. A me sembrava una leggenda invece mi racconta che ha indossato veramente una maglietta rossa in casa di Pinochet.”

Calopresti racconta in sintesi di come si ritrovò con due storie in mano, quella di Panatta e quella della ‘maglietta rossa’, che rendevano il documentario una miscela di realismo e politica. Forse, a detta del regista, un film più politico di La Seconda Volta, sua opera prima diretta nel 1995. “La cosa incredibile è che questa finale che l’Italia vinse non era stata ripresa da nessuno perché il regime dittatoriale cileno non permetteva di divulgare riprese fuori dai confini. Ho scoperto però che un filmmaker era in Cile per fare il suo documentario aveva realizzato delle riprese di quella partita in 16mm, e sono quelle che avete visto nel mio documentario.”

Il regista analizza con lucidità alcuni momenti emblematici del suo documentario, come la scena in cui Panatta spiega le posizioni del tennista in campo, marcando la differenza di skills tra i differenti giocatori dell’epoca. Questa sequenze fece nascere nella mente regista l’idea di fare uno spettacolo teatrale con protagonista Panatta che in scena avrebbe potuto mostrare la tecnica del tennis e raccontare sé stesso forte del fatto che la vita di un tennista ha tutto dentro.

La conversazione si sposta sul concetto, presente nel film, del corpo che si trasforma. Vediamo infatti un Panatta giovane, sportivo e un Panatta ai giorni nostri con il fiatone che mette in gioco se stesso. Il montaggio della pellicola sembra premere sulla visione del tempo che trascorre e trasforma. “Le storie importanti che avvengono hanno bisogno del corpo. Il cinema ha un rapporto con i corpi. Si possono mettere in scena molte cose ma l’immagine del corpo è fondamentale. Panatta è una persona molto affascinante che ha saputo mettere in gioco se stesso.”

Calopresti non dimentica di omaggiare Paolo Villaggio, presente nel documentario in quanto amico di Adriano Panatta, definendolo un grande attore che dietro alla sua apparente improvvisazione conosceva benissimo la tecnica dell’attore ed era dotato di una grande poetica che gli ha permesso di avere grande successo.

Dal pubblico arriva una domanda su come ha gestito Adriano Panatta davanti alla macchina da presa. ‘A briglia sciolta o ha dovuto contenerlo in qualche modo?’ “Adriano è consapevole di essere un figo e avrebbe potuto far l’attore, quindi non ho fatto fatica. Lui è anche molto attento ai rapporti con le persone. E’ molto attento alle parole e alle cose che dice. Ha una sensibilità molto forte e si è fidato di me dopo che abbiamo parlato assieme. Il suo essere un attore fa di questo documentario un docu-film.”

L’incontro trova tra le ultime battute una riflessione sul titolo del film, che deriva dal fatto che Panatta indossò una maglietta rossa durante una finale di coppa che si giocava in Cile, davanti a Pinochet, poco dopo il colpo di stato che portò all’uccisione di Allende. Come però afferma il tennista la sua fu una provocazione conseguente ad un odio per la figura del dittatore cileno più che una vera e propria mossa politica. “Lui odiava Pinochet! Quindi si è messo quella maglietta rossa. Sapeva che era un gesto politico ma questa non era la sua motivazione profonda. Possiamo dire che non voleva fare una cosa che la politica di oggi fa normalmente. Non voleva che quello fosse il gesto della squadra italiana di tennis. Fu un gesto individuale.”

Calopresti saluta mostrandosi favorevole alle nuove forme di cinema, quello tutto girato in studio grazie alla tecnologia, ma afferma che la sua indole rimane quella del cinema con i piedi nella terra. A questo proposito rivela che dirigere Aspromonte -La terra degli ultimi nel 2019, fu un’esperienza che lo ha riconnesso con i motivo per cui girare nel “reale” oggi è molto importante, perché permette di scoprire qualcuno, creare un legame di corpi.

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