DOCUSFERA #2 – Incontro con Daniele Gaglianone

A inaugurare gli incontri con gli autori della seconda edizione della rassegna Docusfera di Sentieri Selvaggi è Il tempo rimasto, seguito da un incontro con il regista- Ecco cosa ha raccontato

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La seconda edizione del progetto DOCUSFERA, il ciclo di incontri sul cinema documentario italiano promosso dalla redazione di Sentieri Selvaggi e realizzato con il contributo e il patrocinio della Direzione Generale Cinema e Audiovisivo, del Ministero della Cultura e della Regione Lazio, non poteva che aprirsi con l’intervento di uno dei volti più significativi del panorama documentaristico nazionale: Daniele Gaglianone.

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L’incontro inizia con la visione de Il tempo rimasto, un film potente, intimo, sensoriale, lontano da quella carica militante – se non propriamente politica – a cui ci ha abituato da sempre il cinema di Gaglianone. E interrogato sui motivi di questo approccio apparentemente meno “impegnato”, il regista italiano offre degli spunti di riflessione interessanti, tanto in relazione alle peculiarità estetiche e comunicative del film in questione, quanto a quelle relative alla sua idea di cinema. “È sicuramente vero che ho realizzato opere su tematiche urgenti, di grande attualità politica” dichiara con franchezza il cineasta “ma questa vocazione entra spesso in conflitto con la mia scarsa attitudine alla militanza. Eppure nel cinema ho trovato un modo per fare quello che non sono stato in grado di inseguire nei panni di cittadino”. Un pensiero che attraversa trasversalmente la sua intera filmografia, e che trova terreno fertile anche nel suo penultimo film. “Da questo punto di vista, penso che Il tempo rimasto sia uno dei miei film più ‘politici’ proprio perché rimanda ad una riflessione sui nostri tempi, nonostante i personaggi intervistati appartengano tutti ad un mondo ormai andato”. Guardando il film, infatti, la distanza dagli eventi raccontati sembra quasi assottigliarsi, come se emergessero improvvisamente nel presente. E la ragione di questo fenomeno, sostiene Daniele Gaglianone “sta nella presenza fisica di queste persone. Loro continuano ad essere tra di noi, non sono alieni, anche se parlano di un mondo alieno. È proprio qui che vanno individuate le intenzioni del mio film: nel conflitto dilaniante tra l’esserci e il non-esserci. Di persone che rivivono gli eventi del loro passato nella perpetuità del tempo presente”.

Nel raccontare le testimonianze di signori anziani, e i loro sforzi a rievocare nella cornice dell’attualità eventi che hanno lasciato (e continuano a lasciare) segni nevralgici sullo sviluppo delle loro coscienze, Daniele Gaglianone ha allontanato sin da subito qualsiasi criterio di razionalità, consapevole che un eccesso di struttura avrebbe compromesso l’autenticità di fondo delle singole (micro)storie. “Quando ci si trova di fronte a racconti così struggenti” afferma il cineasta in merito al suo processo creativo “come nel caso di quell’uomo che ricorda tra le lacrime i sacrifici del padre morto a 40 anni per garantire ai posteri le infrastrutture del futuro, non si può fare a meno di adottare un registro eminentemente emozionale. Dove la razionalità, per forza di cose, deve rimanere sempre un passo indietro rispetto alla carica emotiva”. Insomma, l’emotività che trapela da ogni fotogramma del film, da quei volti scavati (e incavati) nell’onda del tempo, la possiamo ricondurre anche al di là della mera interpretazione dei fatti. Al punto che per il regista l’emozione del film è dovuta alla possibilità “di indagare lo stato d’animo di un uomo che è consapevole di aver già vissuto la propria vita, e che attende, senza struggimenti, la propria fine”. È in questo modo che nel film si concretizza “una vera e propria sospensione, un passato che si rivive nel momento stesso in cui lo si rievoca. E la camera non può che restituire il peso di questa operazione. In un film concentrato sul passato, ma che in realtà parla del presente”.

Ritornando su questioni estetiche, Daniele Gaglianone sottolinea come il montaggio sia lo strumento e insieme culminazione di tutti i discorsi tematici ed espressivi alla base del suo processo creativo. “Per dirla in termini spiccioli, il montaggio è sempre il pettine dove si fermano tutti i nodi. E nel caso de Il tempo rimasto il nostro obiettivo in fase di post-produzione è stato proprio quello di nascondere la struttura, in modo che il racconto potesse realmente galleggiare. Naturalmente nel film” continua il regista “sono presenti linee narrative o digressioni, ma l’assenza di struttura ci ha permesso di partire dall’età avanzata di questi signori, per tracciare un percorso netto che dall’infanzia arriva fino alla giovinezza. Perché la vecchiaia è già nei volti dei personaggi. Non c’è bisogno di raccontarla”. Sono allora le pause, e non le singole parole, a rievocare per lo spettatore i fantasmi dei fragili personaggi, obliterando contemporaneamente lo stigma della struttura. Al punto che in fase di montaggio il regista dichiara di aver concentrato lo sviluppo del racconto proprio su di esse, senza compromettere la natura memoriale delle testimonianze. “Le parole sono importanti, ma questo è più un film di silenzi e volti. È più visivo. In questo senso l’anarchia del montaggio – che non vuol dire caos, ma qualcosa di intrinsecamente liberatorio – permette di rispettare il flusso del viaggio. I tagli” prosegue il cineasta “non dovevano perciò terminare qualcosa, ma fare da ponte verso qualcosa di nuovo”.

Proprio in riferimento alla natura anarchica del film, Daniele Gaglianone conclude l’intervento con una riflessione personale sulla centralità dell’arte documentaristica nel panorama culturale odierno. “Per quanto la fruizione audiovisiva sia profondamente mutata negli ultimi tempi” afferma il regista italiano “il documentario è e sarà sempre uno spazio di sperimentazione, molto più della finzione. È per questo motivo una fonte di espressione necessaria per tutti noi. Uno spazio di vera liberazione”.

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