Favolacce, di Fabio e Damiano D’Innocenzo
Gioca sullo slittamento continuo delle coordinate del cinema di periferia. Ma l’immaginazione non passa mai davvero nell’immagine. Orso d’argento alla Berlinale 2020, da oggi disponibile on demand
Ancora una volta la periferia romana, da Spinaceto a Casal Bruciato. Ma non i soliti casermoni, con le desolanti stese di cemento. Qua è roba di villini monofamiliari, di bei salotti, verande, giardini e cene all’aperto, piscine gonfiabili. Il che vuol dire che si tratta di vite tutto sommato agiate, nonostante anche qui le difficoltà non manchino, soprattutto sul piano psicologico e dei rapporti. Ma nel modo in cui i D’Innocenzo ritraggono questo mondo si avverte soprattutto un lavoro di immaginario, quasi fossimo in suburbi newyorchesi, tra estati americane, con tanto di baracche ai margini della campagna. Popolati però da personaggi di un perfetto periferia movie romanesco, che sfoggiano tutto il repertorio di rabbia e disperazione, nervi a fior di pelle e indolenze, volgarità, battutacce, canzoni urlate a squarciagola. Gli adulti, quanto meno, si muovono lungo questa traccia, con la recitazione sovraccarica degli interpreti, a cominciare da un Elio Germano che manda fuori giri alcune sue esperienze passate (La vita continua). Mentre, dall’altra parte, c’è la timidezza minimale, quasi afasica degli adolescenti, che sembrano usciti da un inquieto teen movie, un racconto di formazione impossibile.
Ecco Favolacce si muove intorno a questi due poli e gioca tutto sullo slittamento continuo delle coordinate del cinema di periferia. Ed è il segno dell’ambizione dei D’Innocenzo a un salto di qualità: dall’adesione pura e semplice dell’esordio a una riflessione su una modalità di rappresentazione ormai consolidata. Che poi, a ben guardare, anche se parlavamo di La terra dell’abbastanza come di un film d’istinto, già c’erano segnali di altro genere, con quelle pesanti iniezioni di toni noir che andavano verso derive e deviazioni del destino. Poi, in mezzo c’è stata anche l’esperienza della sceneggiatura di Dogman di Garrone, che agiva sulla trasformazione della cronaca in una visione astratta o, chissà, surreale (proprio nel senso che sembrava muoversi tra il sogno e l’incubo). Ma qui, comunque, si va oltre, in un’impennata di consapevolezza e di intelligenza. Che si rivela in tutta la sua evidenza nel momento in cui la voce narrante di Max Tortora dice che è tempo di tornare alla “realtà”. Bum, in un’istante si ripiomba in una perfetta scena di realismo periferico, ridotta però al piccolo schermo di una TV di casa (è un servizio TG o una serie TV?). Come a dire, questo era quello che vi aspettavate, noi invece siamo andati in un’altra direzione, vi abbiamo sorpreso e magari sconvolto. Vi abbiamo dato i punti di riferimento spaziali ma li abbiamo resi il più possibile anonimi, abbiamo confuso le coordinate temporali (in che anni siamo e che mondo è quello in cui si va a scuola d’estate?), il sognato dall’oggettivo, la deformazione del racconto dalla verità del dato. Giocando sui toni della favola nera, sull’emersione e immersione del fantastico, con una modalità che in Italia aveva, forse, tentato in tempi non sospetti Daniele Gaglianone con Ruggine.
Regia: Fabio e Damiano D’Innocenzo
Interpreti: Elio Germano, Barbara Chichiarelli, Lino Musella, Gabriel Montesi, Giulietta Rebeggiani, Max Malatesta, Tommaso di Cola, Justin Korovkin, Giulia Melilio, Laura Borgioli
Distribuzione: Vision Distribution
Durata: 98′
Origine: Italia, 2020
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