1997: Fuga da New York, di John Carpenter

Classico e perfetto gioco di equilibri fra la rappresentazione estetica del degrado e la ricerca di un punto di vista morale che doni sostanza all’umanità.

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Calarsi sulla città inosservati: Jena/Snake Plissken compie il compito scivolando sulle correnti d’aria fino a incastrare il suo aliante su una delle Torri del World Trade Center con un cavo d’acciaio. Il senno di poi ci permette un pindarico collegamento con il Philippe Petit di The Walk, e non è il capriccio cinefilo che spinge ad accostare due pellicole così lontane nel tempo: è il sintomo di una forza espressiva che non ha risentito degli anni trascorsi dall’uscita in sala. Perché 1997: Fuga da New York, a suo modo, è anche un film sul tempo. Realizzato da John Carpenter durante una pausa nella pre-produzione de La cosa (perché lo script stava prendendo molto tempo per essere rinifito…), il film ci mostra un inesorabile countdown che coinvolge un eroe “creduto morto”, e quindi in debito di tempo, verso una fine scandita freddamente dallo scorrere dei secondi sul quadrante allacciato al polso e dall’incalzante score elettronico.

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Abitare il tempo, però, significa anche esserci realmente in quello spazio, senza diventare come quelle ombre che si muovono improvvise tra le inquadrature, nei mondi che i prigionieri si sono creati all’interno della città. Significa ricomporre i pezzi di un immaginario esploso in forme da estetica del degrado, secondo una direttrice che nel 1981 dell’uscita carpenteriana nelle sale ha già visto germinare nel decennio precedente l’Arancia meccanica di Kubrick e I guerrieri della notte di Walter Hill, esponenti di una corrente pre-apocalittica destinata poi a deflagare nel postatomico alla Mad Max. Per fare questo, per trovare sostanza a quel muoversi continuo nello spazio newyorkese, bisogna compiere un passaggio di stato, dalle forme esteriori a quella umana pietà invocata da Plissken: sarà lui in fondo a cambiare per primo, passando dallo status di antieroe nichilista a quello di ultimo baluardo di una visione morale – pienamente carpenteriana – che permette allo scherno finale di ergersi quale assoluta forma di resistenza alla deriva morale del mondo. Jena/Snake combatte per la sua vita, non gliene frega niente, ma crea a suo modo dei legami mai dichiarati platealmente, ma ravvisabili nei gesti suoi e dei compagni, in grado di donare la vita l’uno per l’altro (si pensi allo splendido personaggio di Maggie, con il suo sacrificio finale per Mente).

fugadany2Come sempre, è straordinaria la lucidità teorica con cui Carpenter compie questa transizione: per il suo fluttuare libero tra la trasparenza degli spazi reinventati attraverso i trucchi ottici e i movimenti della macchina da presa, e la fisicità dei corpi di Snake, del Duca, di Maggie o di Cabbie. La stessa New York è il crocevia che tiene insieme gli estremi: città iconica per eccellenza, che riflette costantemente sul suo essere paradigma della metropoli, è qui ridotta a un girone dantesco ricreato espressionisticamente con l’ausilio della fotografia capolavoro di Dean Cundey, con le sue tonalità blu unite a sfumature verdastre che restituiscono l’idea di una città come un enorme acquario. Un luogo/non luogo creato unendo location newyorkesi reali, esterni girati a St. Louis e matte painting disegnati da un giovane James Cameron. Le carrellate uniscono con pochi e morbidi movimenti luoghi altrimenti lontanissimi, per far muovere maschere contrassegnate da nomi icastici (Snake, Hauck, Cabbie, il Duca…), potenzialmente bidimensionali e figli di un’estetica da fumetto, ma che poi si rivelano umanissime per la forza che sono in grado di sprigionare.

L’essenzialità dei personaggi si rispecchia e trova quindi un fecondo opposto nel barocchismo della New York degradata: è l’immagine di una città e di un’America figlia del Watergate e della crisi economica, ancora lontana da quella poi ferita nell’11 Settembre e oggi quasi considerata un perduto Eden identitario. Fra il j’accuse di 1997: Fuga da New York e il ricordo nostalgico di The Walk passano i rimpianti di una generazione che con questa città ha un rapporto di amore-odio, che non si riconosce nelle sue metamorfosi e tenta di fuggire, ma non può evitare il confronto con la maschera distorta (nel male e nel bene) che la sua immagine riflette. Questione di estremi e di equilibri in fondo, con Carpenter funambolo sul cavo d’acciaio, come il Philippe Petit di Zemeckis dopo di lui.

Titolo originale: Escape from New York
Regia: John Carpenter
Interpreti: Kurt Russell, Lee Van Cleef, Harry Dean Stanton, Adrienne Barbeau, Isaac Hayes
Durata: 99′
Origine: Usa 1981
Genere: sci-fi/azione

 

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
5

Il voto al film è a cura di Simone Emiliani

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Il voto dei lettori
4.2 (10 voti)
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