Il re di Staten Island, di Judd Apatow

Apatow crea il contesto più familiare possibile per il talento comico di Pete Davidson. Il suo cinema umano può sembrare erratico mentre insegue dei rari e miracolosi momenti di sincerità emotiva

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The King Of Staten Island è stato distribuito direttamente sulle piattaforme VOD a metà del mese di giugno. Tuttavia, il feeling di Judd Apatow con il pubblico non ha risentito dell’adattamento forzato al calendario e agli strumenti di visione imposti dalla pandemia. Il suo nuovo film è balzato subito al primo posto nella classifica dei titoli più noleggiati del mercato americano. La sua abitudine al successo ha attraversato almeno due decenni e adesso ha superato anche il confine tra medium differenti. C’è un motivo particolare per cui il cineasta raramente sbaglia un colpo? Il suo fiuto nello scegliere i nuovi talenti comici da lanciare può bastare come spiegazione esaustiva?

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L’esordio da protagonista di Pete Davidson prosegue un rinnovamento che era iniziato con il precedente Trainwreck (2015) con Amy Schumer. Tuttavia, il regista non si è limitato a sostituire la sua vecchia factory con i nomi più promettenti tra gli stand-up comedians e il cast del Saturday Night Live. Non è chiaro quali siano i rapporti di influenza tra il mumblecore e il suo tipico stile dramedy ma è chiaro che la sua opera di saldatura è sempre più definita. Pete Davidson non è una figura riconducibile ai fondatori del movimento indie di cui Greta Gerwig è una portabandiera. Tuttavia, il suo repertorio apertamente autobiografico, sincero e diaristico tradisce un debito con le storie di formazione che non arrivano da nessuna parte.

La giovane stella della comicità americana ha delle caratteristiche tipiche dei personaggi apatowiani. L’assenza di un’ambizione ben definita e la dipendenza dall’erba sono quelle più evidenti. Il ragazzo è un orfano di padre che vive ancora con la madre e passa i pomeriggi a fumare con i suoi coetanei. Il suo progetto è quello di aprire un ristorante in cui le persone mangiano mentre lui fa dei tatuaggi ai clienti. Tuttavia, gli esperimenti che ha fatto sui corpi dei suoi amici e sulla madre non hanno dato dei grandi risultati. Il profilo del protagonista maschile congelato in un perenne infantilismo è un archetipo delle storie del regista. La performance di Pete Davidson regala a The King of Staten Island una declinazione dolente.

Gran parte del suo repertorio si basa su una dissociazione maturata come conseguenza dalla morte prematura di suo padre. Il comedian è rimasto orfano da bambino, quando il padre pompiere morì nell’inferno delle Twin Towers. Il suo autolesionismo e la sua incapacità di avere interazioni sociali normali hanno un’origine traumatica. La corrispondenza del suo lutto con quello del protagonista del film è totale. Una parte decisiva della sua vicenda è ambientata in una caserma dove gli ex colleghi del genitore gli insegnano l’arte del cameratismo. Infatti, la madre rompe la clausura che gli era stata imposta per diciassette anni da un figlio problematico ed inizia una liaison con un altro firefighter. I due dovranno superare la diffidenza reciproca, la gelosia e il senso di inferiorità davanti ad un termine di paragone maschile ammantato di eroismo.

Pete Davidson è solo l’epicentro di una serie di relazioni che Judd Apatow non tratta mai come fossero secondarie. Per questo è difficile capire se il mumblecore ha influenzato il suo cinema o se non sia invece il contrario. La delusione commerciale di Funny People (2009) poteva essere attribuita proprio alla sua non conformità al format e alle attese. I film del regista mantengono lo schema tradizionale della commedia ma si prendono delle pause narrative sempre più necessarie. The King of Staten Island non costruisce le sue scene mettendosi al servizio delle migliori battute di Pete Davidson. Così come Trainwreck non si piegava ad essere soltanto il trampolino di lancio di Amy Schumer.

Il cinema di Judd Apatow cerca di mettere i suoi attori a proprio agio non tanto come professionisti ma come persone. Il regista ha creato un contesto in cui Pete Davidson non deve fare altro che essere se stesso. Marisa Tomei ormai è specializzata nel ruolo della madre single ancora piacente e gli altri membri del cast non fanno alcuno sforzo per entrare nella parte. The King of Staten Island può sembrare disordinato per chi cerca una struttura narrativa tradizionale. L’incoerenza è una conclusione abbastanza naturale se il punto di vista è quello di un personaggio erratico ed inconcludente. Inoltre, Judd Apatow vuole che la personalità di tutti i suoi pochi legami con il mondo vada rispettata e approfondita e accetta il rischio della dispersione.

Il film scorre per più di due ore alla ricerca di alcuni squarci non programmati di sincerità emotiva. Lo spettatore deve scegliere se aspettare e tollerare un racconto che non sempre è all’altezza della situazione. Il momento in cui l’occhio paziente del regista ruba un istante di ingenuo affetto tra i suoi personaggi ripaga ogni attesa. Sono attimi fugaci in cui ci si rende conto che il suo cinema possiede una qualità sempre più rara da trovare. Judd Apatow ama i suoi personaggi e il suo pubblico al punto di restituirgli l’emozione transitoria della felicità. Ovviamente, ama anche il cinema, l’unico posto in cui questo miracolo è possibile.

Titolo originale: The King of Staten Island
Regia: Judd Apatow
Interpreti: Pete Davidson, Marisa Tomei, Ben Powley, Bill Burr, Maude Apatow, Steve Buscemi
Distribuzione: Universal Pictures
Durata: 136′
Origine: USA, 2020

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
4

Il voto al film è a cura di Simone Emiliani

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Il voto dei lettori
3.5 (6 voti)
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