La donna alla finestra, di Joe Wright

Wright adatta un romanzo di evidente derivazione hitchcockiana, ma invece di soccombere al modello vi innesta un discorso sulla contemporaneità riaffermando la forza della messa in scena. Netflix

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Anna Fox è una psicologa infantile che vive in una grande casa a Manhattan con un gatto come unica compagnia e un inquilino misterioso nel seminterrato. L’agorafobia non le permette di uscire, così trascorre il tempo ricevendo il suo analista, mischiando pillole e alcol, e osservando i vicini dalla finestra.

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Riguardo La donna alla finestra di Joe Wright è già stato scritto tanto. Si è detto che sarebbe un film derivativo, ma quale film non lo è? Dal modello hitchcockiano, che comunque era già alla base del romanzo di A. J. Finn da cui è tratto il soggetto. Derivativo da un’idea narrativa, quasi un genere a sé, che alcuni si accontentano di annoverare nel thriller psicologico. Le immagini che per prime vengono alla mente guardandolo sono quelle vertiginose di Panic Room (2002) che già da solo raccoglieva un numero impressionante di eredità cinematografiche per condensarle in uno degli apici della produzione postmoderna. Il cineasta inglese, come già David Fincher vent’anni prima, sfrutta il digitale per sganciare lo sguardo registico da quello umano e mettere in scena una sorta di onniscienza visiva. D’altra parte, però, il punto di vista è sempre e comunque quello della protagonista, la qual cosa crea ovviamente un corto circuito espressivo che non ci sentiamo di sottostimare. Quando ciò che vediamo è reale? Chi e come lo stabilisce? esiste una verità fuori dagli occhi?

Come sempre nel cinema di qualità, anche qui ci si appella all’immagine. Quella d’apertura, a parte i fiocchi di neve su sfondo scuro che presto verranno spiegati, è quella di una stanza infestata da una luce in movimento, da subito irrequieta e respingente. Quella di Anna è prima di tutto una storia di spettri. Nel terzo atto ne avremo conferma, ma già nella prima parte è evidente che qualcosa in quella casa è fuori fuoco, instabile, come il fermo immagine di James Stewart in pericolo che all’inizio appare sullo schermo del televisore. Non sarebbe una ghost story ma i fantasmi ci sono eccome, imprigionati nella mente, nelle inquadrature e nelle parole. La sequenza d’apertura, quella in cui viene presentato l’ambiente, dimostra come per Wright fosse prioritario mostrare gli spazi della messa in scena, evidenziare e rammentare proprio quelle derivazioni su cui poggia il testo, annunciare e disinnescare la ricostruzione postuma del percorso cinefilo. Corpi, luce e cinema vengono così fotografati, digitalizzati, scannerizzati, ri(rap)presentati.

In questo senso, la casa di bambole sulla quale carrella la macchina da presa non è – come invece in The Haunting of Bly Manor (2020) – didascalica riformulazione in scala della realtà sensibile, ma appunto uno sprazzo di presentificazione per quella realtà bloccata nel tempo e nello spazio di un reiterato ritorno. Il senso di colpa diventa per Anna una serratura, prende le forme di finestre e tende, video e schermi, perché non è più possibile stabilire la differenza e soprattutto la distanza fra le cose e la loro replica. E comunque ciò si potrebbe dire del contemporaneo, se è vero che camminando per strada sembriamo avere tutti un ombrello che ci separa dal mondo esterno, chiusi come siamo nella bolla dei nostri contatti social. Esserci sempre e ovunque, rispondere a messaggi già letti, mummificare la comunicazione in un’eterna visualizzazione. Anna deve solo riuscire a superare quel che crede di sapere su di sé e sul ruolo che ricopre nella vicenda che sta vivendo. Smettere, ogni giorno, di rinascere sempre uguale sotto un lenzuolo bianco.

Ma è pur vero che quel lenzuolo è il cinema stesso, almeno nella sua formulazione tradizionale. È il chroma key degli esterni in La donna che visse due volte (1958), il panno che copre i segreti in Occhi senza volto (1960) di Georges Franju. Inoltre, nel film di Wright c’è soprattutto molto delle prime opere di Roman Polanski: quell’idea tutta europea dell’assedio con la quale l’autore polacco esorcizzava il ricordo dell’occupazione nazista nelle allucinate violazioni di Repulsion (1965) – questa pellicola, in particolare, salta alla mente molto spesso durante la visione – e Rosemary’s Baby (1968). In questo delicato momento storico bisogna tornare ad esplorare le possibilità cinematografiche per attivare un anticorpo, un vaccino al virus della condivisione compulsiva e dell’annullamento dell’identità personale. Una paura ancestrale, archetipica quanto la solitudine, che però in tempi di pandemia risulta essere patologica. Se sapremo lasciarci alle spalle la pericolosa perfezione delle nostre stanze digitali, ritroveremo l’ambiguità del reale.

 

Titolo originale: The Woman in the Window
Regia: Joe Wright
Interpreti: Amy Adams, Gary Oldman, Anthony Mackie, Fred Hechinger, Wyatt Russell, Brian Tyree Henry, Jennifer Jason Leigh, Tracy Letts
Distribuzione: Netflix
Durata: 101′
Origine: USA, 2021

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3.6

Il voto al film è a cura di Simone Emiliani

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Il voto dei lettori
2.97 (32 voti)
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