Mel Gibson. Fuori dalla Razza Umana

mel gibson
Da questo pantagruelico monumento al rancore innalzato dall'attore che fu William Wallace col petto squarciato in due nella pubblica piazza è facile prendere le distanze, dichiararne l'insanità, indicarne il confine dell'abisso. E allora, per uno come Gibson, “un sopravvissuto”, non resta che mascherarsi e fuggire da questa Terra, come il suo Voz nel senile Machete Kills di Rodriguez

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Gli uomini della nostra generazione non riescono più a morire per una buona causa.
Tutte queste cose le hanno fatte altri, durante la guerra e prima.
No, ragazzo mio, non ci resta più nulla, salvo che lasciarci massacrare dalle donne.

Jimmy Porter

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mel gibsonMel Gibson ricorda con rabbia. Magari non è più young ma l'attore resta uno dei pochi angry men rimasti ad Hollywood: sempre se Hollywood abbia ancora intenzione di offrire asilo a questo newyorkese naturalizzato australiano, classe 1956, sesto di dieci figli, che pare non voler più smettere di dare ascolto a quella marionetta con le sembianze di castoro che lo ha convinto a sputare l'osso senza pensarci due volte, urlare a squarciagola emozioni, reazioni, dolori e frustrazioni, fin quando non resterà altro da fare che amputarselo, quel braccio violento della verità, come nel miracoloso film di Jodie Foster che avrebbe dovuto fungere da espiazione pubblica ma in realtà non ha fatto abbassare il braccio a Mel nemmeno per un attimo, che ha continuato a tenerlo ben teso e ben puntato, aizzato, diretto con livore contro tutti, fuori dalla razza umana

All'improvviso è come se l'assunto della commedia romantica interpretata per Nancy Meyers, What women want, fosse stato spaventosamente rovesciato, e a tutti fosse stata data la possibilità di poter ascoltare ad alta voce e chiaramente i pensieri più intimi di Gibson. Ma chi fa pensieri giusti e corretti quando pensa di non essere ascoltato? Il destro micidiale che Dolores Heredia riserva al muso inerme da gringo di Mel in Viaggio in Paradiso dovrebbe pareggiare il conto con le terrificanti minacce impresse con clamore di decibel saettanti come frustate sulla schiena di Cristo, e strillate sul nastro della segreteria telefonica della ex-moglie, poi riavvolto e ascoltato da tutto il mondo (Ipotesi di complotto?). 

Da questo pantagruelico monumento al rancore innalzato dall'attore che fu William Wallace col petto squarciato in due nella pubblica piazza è facile prendere le distanze, dichiararne l'insanità, indicarne il confine dell'abisso, la edge of darkness del titolo originale del bel thriller d'azione diretto da Martin Campbell. Un Porter senza rivincita, inconsapevole quanto sublime omonimia tra il protagonista della pellicola di Helgeland e quello del play di John Osborne, che tira su un piano scellerato lungo tutto Get the gringo in sostanza unicamente per vendicarsi del tipo che gli ha fregato la donna. Un folle giustiziere secondo dettami morali completamente personali che sembra perennemente indeciso tra l'affondare il coltello contro il nemico, e l'usarlo per uno spettacolare harakiri in pubblico, mentre dal cielo piovono i milioni di dollari guadagnati in 35 anni di carriera, come nel gran finale in hangar del capolavoro della coppia Gibson/Donner, Arma Letale 2.
Nessuna immunità diplomatica per Gibson, ma dall'altra parte neppure alcun amletico tentennamento sulla definizione di Bene e Male. Gibson sa bene d'essere già sopravvissuto all'epoca delle divisioni a Hollywood: da un lato i repubblicani muscolosi e muscolari, dall'altro gli attori per bene, quelli delle associazioni umanitarie, dei bambini adottati dal terzo mondo, degli impegni nel sociale, delle amicizie giuste e dei film buoni. Lui, il patriota, ha capito prima di molti altri che oggi le ceneri della dopostoria sono più confuse che mai, e nessuno riesce più a interpretare bene i segni nel grano. E allora, per uno come Gibson, “un sopravvissuto”, non resta che mascherarsi e fuggire da questa Terra, come il suo Voz nel senile Machete Kills di Rodriguez.

Da un lato, probabilmente, le star del duemila lo fanno anche sorridere, con questo timido engagement da copertina. E allora Mel parla chiaro, e scandisce le parole, col rischio di passare da Uomo senza volto a uomo senza testa, ghigliottinato in cima ad un tempio Maya dai profeti della Fine del Mondo, che non hanno ancora capito che Mad Max l'ha già vista e se l'è scrollata di dosso pagando il riscatto. Oggi Gibson è un ex-cecchino (We were soldiers) che darebbe una sigaretta da fumare a un bambino di dieci anni, il quale è in sostanza la personificazione perfetta di quello che dovrebbe essere sempre il cinema, quando è vissuto pericolosamente (ovvero un bambino in prepubertà che fuma le sue prime sigarette di nascosto dalla madre), e gli rivela quanto la vita sia fatta di tremende, incontrollabili, ingestibili, dolorosissime, e soprattutto irreversibili e fatalmente dannose incazzature.
E' troppo tardi per mettersi a correre sotto le pallottole che fischiano a Gallipoli, per cercare di fermare l'attacco. L'ultimo a farne le spese è stato Joe Eszterhas (nell'attesa della prossima vittima), ma davvero si tratta sostanzialmente di pretesti, volti e nomi che servono unicamente ad alimentare una rabbia più grande, universale, che alla fine se la prende con il capitano del Bounty solo per giustificare l'ammutinamento, l'umanissimo desiderio di restarsene da soli su di un'isola o su di un altro pianete, lontani (e fuori) dall'umanità, da Machete, dai Mercenari, dai remake…

Lasciate in pace Mel Gibson, allora. Non è qui per raccontarvi che alla fine il crimine paga (anche perché quale sia il crimine, o meglio cosa sia un crimine, è davvero ancora tutto da appurare: stiamo chiaramente barando al tavolo di poker, anche se questo non è più il far west). E' troppo vecchio per queste stronzate, no. Lui vuole solo godersi gli ultimi bagliori dell'estate.

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