Sequenze e Frequenze. Franco Battiato regista

Dall’esordio dietro la mdp a 58 anni con Perduto Amor fino a Attraversando il Bardo: in mezzo il Beethoven con Jodorowsky e diversi tentativi di spiegare con le immagini la poetica delle sue strofe

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Ricordo perfettamente una di quelle riviste di musica “per giovani” decostruire il testo di Shock in my town, in quel 1998 in cui l’heavy rotation del singolo nelle radio aprì ad un’intera generazione, la mia, le possibilità di un orizzonte musicale molto più vasto di quanto avessimo pensato sino ad allora, ben al di là anche delle scoperte casuali dei più azzardati tra di noi (Gommalacca fu davvero il nostro bignami di avanguardia, tra Shackleton e Il ballo del potere): cantavamo di amminoacidi, neo-primitivi e Velvet Underground andando a scuola in corriera, e il paginone pieno di schemini e frecce di quella rivista riempiva di note a margine quelle lyrics, tra serpenti Kundalini e mescalina. Una possibilità, quella dell’interpretazione filologica e della parafrasi, che le strofe evocative di Franco Battiato non permettevano, perdendosi nel gioco percettivo e dei rimandi occulti lasciati all’esplorazione dell’ascoltatore.
Il cinema di Battiato si pone così come tentativo di costruzione di un apparato di note illustrate per i testi del cantautore, vero e proprio percorso di immagini che veicolano e “spiegano” l’universo costruito dalle canzoni di Battiato. Se è innegabile, come mi ha detto Simone Emiliani, che i veri film del musicista sono nelle mille storie giusto accennate nei suoi brani, è altrettanto indubbio come la vera guida a Shock in my town non fosse in quella rivista che sfogliavo a 15 anni quanto, per dire, in Niente è come sembra (2007) o in Attraversando il Bardo (2014), due degli exploit registici di Battiato. In Niente è come sembra la cornice narrativa è un pretesto ancora più esile che nel precedente Musikanten (2005), e il film, nel suo tenere insieme le riflessioni di un gruppo nutrito di studiosi e mistici su spiritualità, aldilà, fede, meditazione e trasmigrazione assomiglia molto di più nella forma al documentario del 2014 che prende il via dal Libro Tibetano dei Morti. Si tratta di dispositivi che procedono per annotazioni ed esempi, aneddoti allegorici e timidi istanti di apertura visionaria, davvero vicini ad una certa modalità di raccolta per accumulo in stile avant americano, tra i tone poems visivi di Jonas Mekas (apertamente citato in Musikanten) e Laurie Anderson (il cui Heart of a dog, successivo ai film di Battiato, si muove in territori simili).

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C’è da dire che l’esordio dietro la mdp, a 58 anni, era stato però meno oltranzista: Perduto Amor arriva nelle sale nel 2003, quando Franco Battiato sembra aver chiuso la parte sonica della sua carriera con gli esperimenti di Gommalacca, per guadagnare un nuovo seguito, ancora più ampio (passaggi tv e un sensibile riposizionamento sulla propria figura di intellettuale) grazie alla serie di album di Fleurs, reinterpretazioni in chiave chamber music sintetizzata di hit più o meno dimenticate del repertorio popolare itaiiano (ma non solo) di canzonette, brani d’amore d’autore, melodie perdute nella golden age dell’etere internazionale. Perduto Amor è un film che parla la stessa lingua (a partire già dal brano di Adamo citato dal titolo), rievocando frammenti esistenziali di un’epoca attraverso un’operazione di dispersione del ricordo, orchestrata – come tutte le prove registiche – insieme al fido Manlio Sgalambro, e annettendo nel proprio racconto vere e proprie messinscene di quanto Battiato già raccontava tra le strofe di Sequenze e Frequenze, Mesopotamia, Stranizza d’Amuri. È Sgalambro stesso a pronunciare le prime parole del cinema di Battiato: “il nascere e il morire sono i due momenti unicamente reali. Il resto è sogno, interrotto da qualche insignificante sprazzo di veglia”. Tutta la sua produzione registica è una continua metafora, spesso (anche ingenuamente) esplicita, di questo assunto di partenza: un cinema che si accende di sprazzi narrativi che vengono perseguiti per il tempo volante di una sequenza, la cui passione teorica non teme l’ingolfamento o la confusione. Nel suo afflato autobiografico e insieme di riassemblaggio della propria icona, Perduto Amor sembra anticipare l’operazione su se stesso che Alejandro Jodorowsky imbastirà poi per i recenti La danza de la realidad e Poesia sin fin.

Oltre a leggere i tarocchi in Niente è come sembra, Jodorowsky è il protagonista di una delle linee parallele che attraversano Musikanten, nel ruolo di Beethoven: ma le sezioni di ricostruzione degli strani giorni del compositore sembrano voler inseguire piuttosto il passato magico di certo cinema portoghese deoliveiriano. Nei frammenti al presente c’è invece probabilmente la rappresentazione più compiuta dell’intento cinematografico di Battiato, una sorta di diario per immagini di un’indagine alla fine dei tempi, un pre-cinema sopravvissuto e rovesciato, digitale e sgraziato, che fissi anche solo per un istante l’immensa solitudine di ognuno di questi sguardi da veggente, e di questi frames. Un film di fantascienza tratto da Segnali di vita (Le luci fanno ricordare le meccaniche celesti).
Il senso di Apocalisse imminente e solitaria che si respira tra questi fotogrammi è d’altronde figlio dell’anima prepotentemente meridionale insita nella poetica tutta di Battiato, e che in pochi hanno rilevato in questi giorni di commiati e ritratti – di quel meridione tra i cui paesini figure infradimensionali come Battiato si riconoscono da millenni: anche il suo cinema parla a conti fatti della “legge dell’appartenenza”, per dirla ancora con Sgalambro, di quel “diritto inevitabile della Terra”. Nel ritorno…

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