Spider-man: Across the Spider-verse. Analisi di un’anomalia animata

Il tema cardine del multiverso, cioè l’anomalia, non è qui relegato alla sola cornice tematica, ma è l’elemento di connessione di ogni riflessione del film: estetica, narrativa e culturale

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Tutte le opere contemporanee sul multiverso sembrano partire da un stesso assunto: l’impossibilità di soverchiare un destino che appare sempre più statico, immobile, e predefinito, a cui è necessario sottostare, per poter resistere ai disegni imperscrutabili del fato. Lo sa bene Scarlet Witch, che malgrado gli innumerevoli tentativi di soddisfare il proprio bisogno di maternità, si trova costretta ad accettare una realtà in cui le sue speranze non superano lo stato di vane illusioni; e lo stesso vale per la Evelyn di Everything Everywhere All At Once, le cui incursioni intra-dimensionali la portano a prendere coscienza di un rapporto filiale ormai (cor)rotto, impossibile da ricucire anche all’infuori del proprio (minuscolo) universo di provenienza/appartenenza. E in questo stato di cose, dove tutto è variabile e al tempo stesso così diabolicamente precostruito, chi cerca di tracciare una visione alternativa alla via maestra, confinando perciò le esistenze entro limiti empirici e ben definiti, è considerato alla pari di un’anomalia, di un corpo-virus che va combattuto, demolito, e cancellato dai parametri di un mondo sempre più imbrigliato nelle sue connessioni interspaziali. Ed è a questa logica che Spider-man: Across the Spider-verse sembra affidare ogni sua riflessione. Estetica, tematica, e soprattutto culturale.

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In questa prospettiva, potremmo allora partire da un’analisi del protagonista, e dagli intrecci che lo portano a confrontarsi con le realtà di un mondo-torrent infinito, eppure così incredibilmente circoscritto. Perché, se ci pensiamo bene, Miles Morales è di per sé il fattore (o sintomo?) “anomalo” di uno spazio impermeabile al cambiamento, che seppur ospiti delle variazioni fisiche o temporali, è costretto in ogni sua dimensione e realtà parallela a rispettare la legge del “Canone”. Ma il giovane supereroe sfida l’immutabile flusso degli eventi, lo nega, generando sin da subito delle falle impensabili, in un sistema che non contempla la convivenza con un individuo/eretico incapace di abbandonare ogni spirito di resistenza – e quindi la sua natura non-canonica. Non è un caso, infatti, che il comportamento di Miles crei proprio il “villain” di Spider-man: Across the Spider-verse, cioè The Spot, una nemesi fatta di bug e buchi neri che gli permettono di abitare dimensioni dalla natura ontologicamente opposta – come, ad esempio, quella “referenziale” del live-action – senza neanche soffrire di quei glitch a cui Miles va in contro ogni qualvolta si ritrova in una realtà che ne stigmatizza il corpo perché ritenuto fin troppo “irregolare”.

Spider-man: Across the Spider-verse non si limita, però, a relegare l’anomalia alla sola cornice narrativa. Al contrario, la rende l’elemento di connessione di tutte le sue riflessioni, per poi estenderla alle pratiche estetiche con cui il film dà vita ai suoi intrecci animati. In questo senso la parcellizzazione dell’immagine in riquadri e vignette di stampo fumettistico risponde proprio alla necessità del racconto di offrire un sostegno organico alle “difformità” del protagonista, materializzando così l’unica vera cornice capace di contenere la singolarità corporea che lo contraddistingue. Un processo in continuo divenire, questo, mai limitato al perimetro dell’inquadratura, ma che si allarga e si espande – parallelamente ai mondi intradiegetici attraverso cui viaggiano i protagonisti – oltre i confini del quadro, fino a comprendere la materia stessa che dà corpo ad una (ragna)tela animata così deliberatamente anomala. Le ibridazioni di grafica 3D e hand-drawn animation, intervallate da innumerevoli contaminazioni con gli stilemi cromatici dell’acquerello, portano il film a ritagliarsi uno spazio alternativo nel panorama delle produzioni animate/supereroistiche a stelle e strisce, al punto da configurarlo come testo nevralgico di un nuovo modo (ma sarà così?) di tradurre linguisticamente sul grande schermo i tratti grafici dei comics, al di là, appunto, del “canone” hollywoodiano.

Quello a cui Spider-man: Across the Spider-verse sembra realmente tendere con questa sequela di ibridazioni ed eterogeneità grafiche, è un’asserzione perlopiù culturale. Perché se nel suo mondo Miles Morales è considerato a tutti gli effetti un’anomalia, per come rifiuta di sottostare alle logiche reticolari del fato, nella nostra realtà, quella in cui si radica idealmente ogni rappresentazione che osserviamo sullo schermo, si ritrova in una condizione non troppo dissimile. Il ragazzo, a ben vedere, non è il classico spiderman di quartiere a cui tutti sono abituati: non viene dal Queens, ma è di Brooklyn, non si chiama Peter Parker ma ha un nome ispanico, non è bianco ma nero. È per la tradizione supereroistica quello che potremmo definire un’eccezione culturale. E in quanto espressione della cultura black, e conseguentemente di un un modo “diverso” di essere eroe, diventa preda di tutti gli altri spiderman, che lo vorranno silenziare proprio perché indice di un eroismo non-normativo. Un’istanza polemica, questa promossa dai filmmaker, che assume ancora più vigore se comparata alle strategie narrative/rappresentative di No Way Home, dove i tre spiderman (in quanto bianchi, e quindi appartenenti alla cultura egemone) arrivano addirittura ad unirsi per affrontare insieme la minaccia.

Eppure il film non ha alcuna intenzione di impantanarsi sulle soglie di un facile vittimismo. Anzi. Quel che lancia è un vero e proprio urlo di rabbia, legato ad una volontà di reagire, senza mai sottomettersi, ai vincoli che ostacolano l’emersione naturale di una soggettività black. Ciò che è considerato anomalo diventa qui la sorgente stessa da cui iniziare a trasformare la diversità in un fattore privo di qualsiasi connotazione negativa, che si ponga a testimonianza di una raffigurazione fedele – e quindi positiva – delle radici afroamericane del personaggio. “I miei buchi non sono una maledizione, ma la risposta!” dirà non a caso la nemesi di Miles riferendosi alle sue “anomalie corporee”, quasi a suggellare la volontà degli autori di tramutare in canonico tutto ciò che minaccia le strutture stesse della cultura vigente. È così che Spider-man: Across the Spider-verse arriva a frammentare dalle fondamenta lo status quo. In modo da prefigurare una visione multiculturale, che ospiti in sé anche quelle espressioni mai considerate all’infuori della nozione di alterità.

È in questo contesto, allora, che la volontà del film di rifiutare qualsiasi senso di chiusura diventa comprensibile – se non addirittura necessaria. La risoluzione degli intrecci è rimandata al sequel, lasciando in sospeso una serie di domande che paradossalmente arricchiscono, e non depotenziano, la natura caotica di un racconto per nulla ortodosso. Quasi come se le sue strutture “anormali” non fossero ancora in grado di ospitare, o semplicemente di contemplare, una forma conclusiva così canonica e conciliatoria come quella del “The End”. A meno che, sembrerebbe suggerirci il film, non si arrivi in futuro ad una realtà uniforme, in cui ogni dimensione parallela, nella sua fallibilità, ha ceduto irrimediabilmente alle politiche egemoniche di quel multiverso chiamato Hollywood.

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