The First Slam Dunk, di Takehiko Inoue

Inoue annulla in un istante ogni nostra difesa, condensando sul parquet tutto ciò che rende struggente, brutale ed esaltante la vita. Forse l’opera definitiva sullo sport e sui suoi valori formativi

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Tum, tum, tum… Sul parquet si ode una sinfonia di suoni e rumori stridenti, grida dei tifosi e palleggi, sterzate improvvise di scarpini che anticipano un cambio di direzione (nel movimento, nella partita o forse, nella vita). Stacco. Si passa ad un campetto in cemento: vediamo un bambino gracile palleggiare insieme all’amato fratello Sōta, che lo incalza a puntare senza timore il canestro “Non darmi le spalle, altrimenti mostri solamente di avere paura!” sentiamo dirgli mentre gli ruba per l’ennesima volta il pallone. Ryōta non lo sa ancora, ma quella sarà l’ultima volta che vedrà il fratello giocare a pallacanestro. L’ultima occasione (mancata) per seguire i suoi consigli su come stare in campo, sui modi in cui affrontare, guardandoli dritto in faccia, i problemi del quotidiano. Da quel momento in poi il giovane protagonista di The First Slam Dunk rimarrà solo, costretto a guardare con occhi stanchi le sponde del mare, lì dove si è consumata la tragedia familiare. Almeno finché non saranno i compagni della squadra liceale dello Shohoku ad offrigli una possibilità di riscatto. Per sé stesso, per la madre, per il fratello che non c’è più. Un’occasione da concretizzare nella vittoria contro i campioni in carica della Sannoh, ovvero quel formidabile team su cui Sōta desiderava così tanto primeggiare. E a cui aveva affidato i suoi sogni (spezzati) di gloria.

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Per chi ha letto il manga di Slam Dunk, questo incipit potrebbe sollevare più domande che conferme: dov’è Sakuragi? Davvero Ryōta, il personaggio forse meno indagato nell’opera originale tra i membri del quintetto, aveva alle spalle una storia così tragica? È proprio questo ciò che mette ogni volta in campo, tra sudore, rabbia e abnegazione? Ecco, nell’adattare la parte finale del suo stesso manga, cioè la partita-fiume tra lo Shohoku e la Sannoh – con tutta probabilità una delle vette artistiche più alte nella storia delle produzioni culturali giapponesi – in The First Slam Dunk Inoue parte dall’inedito, da una cornice extra-fumettistica incentrata sui trascorsi passati dello scattante playmaker, visibili sotto forma di flashback. In questo modo l’autore mette sin da subito in correlazione il dramma della vita con la tensione, le pulsazioni cardiache e la ricerca della vittoria inseguita dai protagonisti sul campo da gioco. Inteso qui, come in tutti i più grandi spokon (manga sportivi) della storia, non come una semplice arena in cui confinare le azioni di una partita: ma come terreno per indagare tutto ciò di cui si compone l’esistenza di un giovane ragazzo. Di ciò che rende struggente, brutale e meravigliosa l’adolescenza.

 

Nel muoversi costantemente tra gli eventi della partita e i flashback dei cinque protagonisti, il film presenta Ryōta quale centro drammatico del racconto. Una scelta saggia, da legare alle stesse qualità cestistiche del personaggio. Lui è infatti il playmaker, colui che porta la palla e da cui nascono tutte le azioni di gioco. In questo senso Ryōta è il catalizzatore di attacchi, emozioni e vissuti, e ogni volta che scarica il pallone su un compagno, è come se gli passasse il testimone della narrazione. Per quanto il focus drammaturgico e tematico sia tutto nelle sue mani, grazie a questo felice espediente Inoue riesce a rendere centrali i conflitti di ogni membro del quintetto, a partire dal volto-simbolo di Slam Dunk, cioè il “geniale” nonché autoproclamatosi “Re del rimbalzo” Hanamichi Sakuragi. Ma tutto questo non sarebbe stato possibile se il film non ci avesse fatto sentire fisicamente il campo. Con The First Slam Dunk, che tra sterzate sul parquet, terzi tempi e scontri sotto canestro, arriva a posizionare lo spettatore lì nel mezzo. Stordendolo con un tripudio audiovisivo che attacca i sensi di chi guarda. Fino a rapirgli il cuore. E a stregargli la mente, ancor prima che abbia il tempo di accorgersi di come la sua attenzione sia stata completamente assorbita dalla densità delle azioni sceniche.

Grazie ad una precisa tecnica di cel-shading, per cui le animazioni tridimensionali in CGI venivano rielaborate a mano dallo stesso Inoue (secondo la bidimensionalità dei rodovetri tipica degli anime), The First Slam Dunk esalta l’iperrealismo a formula assoluta del racconto, in modo da presentare agli occhi del pubblico immagini talmente immersive e avvolgenti, da rompere le barriere che lo separano dallo schermo. Chi ha giocato a basket, come chi è neofita di questo sport (e del manga), si troverà senza sosta a supportare le azioni sul parquet, a soffrire fisicamente per i (larghi) distacchi subiti dallo Shohoku, e ad esplodere di gioia non appena i nostri eroi si svincolano dalla spirale di supremazia della Sannoh. Perché quel che Inoue mette qui in scena nel confronto tra le due squadre, è da un lato la bellezza esaltante del gesto sportivo: di chi, come la Sannoh ne è assoluta espressione; dall’altro la capacità degli outsider di non mollare mai, di trovare in sé stessi, nel proprio passato, e nei ritmi cardiaci dei propri compagni, la forza di affrontare gli ostacoli della quotidianità. Tanto quelli esterni – l’avversario da superare – quanto quelli interni, più intimi e insidiosi, che rischiano di farli cadere nel baratro della disperazione.

Scusa mamma se sono io ad essere vivo” scrive Ryōta su un foglio di carta, per poi gettarlo nel cestino. Un gesto fugace, struggente, che rende bene l’idea di come il ragazzo, agli occhi (tristi) della madre, si sia sempre sentito incompleto. Ma il trauma fraterno è ciò che non gli permette di abbattersi in campo, generando così nel cuore del playmaker un desiderio impellente di riscatto. Da far passare non solo attraverso i ritmi roboanti e forsennati della pallacanestro. Ma nel silenzio del dramma. Se The First Slam Dunk, infatti, eccelle nell’offrire a chi guarda lo spettacolo estatico (ed estetico) del movimento, è perché riesce a generarlo dal suo contrasto sonoro. È proprio nell’assenza del suono che i sogni, le speranza e le fatiche dei protagonisti si caricano di un impatto emotivo deflagrante. Insieme ai giocatori, restiamo infatti lì immobili, sospesi tra la tensione che precede il tiro e la speranza di vederlo entrare nella retina. E non è un caso che la scena-simbolo di Slam Dunk, quella che dal ’96 si fa metafora e sintesi dell’intera opera, si presenti allo spettatore alla pari di un’immagine-sacra, immersa com’è in quello spirito liberatorio che solo il silenzio assoluto, unito al buio della sala, può davvero restituire.

A questo punto, una questione sorge spontanea: è mai possibile che Inoue, privo di alcuna esperienza pregressa nel campo dell’animazione, abbia appena cambiato il paradigma degli anime (e di come si lavora all’integrazione di hand-drawn animation e CGI) con The First Slam Dunk? Ebbene, chi ha letto i suoi manga non dovrebbe rimanere troppo sorpreso. Perché le tavole del sensei, per come alternano il particolare al macroscopico, il campo medio alla gigantografia, offrono già un montaggio di natura perlopiù cinematografica. E il finale del film, in cui si assiste ad una regressione (o evoluzione?) dall’iperrealismo del 3D al tratto grafico del fumetto, appare a riguardo come una potente dichiarazione d’intenti. Dove il mondo dell’animazione, sempre più rarefatto e stilizzato, ritorna all’essenzialità dell’immagine disegnata. Sbattendoci in faccia i sogni, le crisi e le redenzioni di personaggi visibilmente “fittizi”, eppure mai così umani. Capaci di imparare a soffrire insieme. Con la consapevolezza che ci sarà sempre un compagno, lì di fianco, a cui passare il pallone.

 

Titolo originale: id.
Regia: Takehiko Inoue
Voci: Shugo Nakamura, Jun Kasama, Shinichiro Kamio, Subaru Kimura, Kenta Miyake, Ryota Iwasaki, Maaya Sakamoto, Chikahiro Kobayashi, Masafumi Kobatake, Asami Seto, Katsuhisa Houki, Kenichirou Matsuda
Distribuzione: Anime Factory
Durata: 124′
Origine: Giappone, 2022

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
4.6
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Il voto dei lettori
3.71 (48 voti)
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