FEFF 26 – Voice. Intervista esclusiva a Yukiko Mishima e Shimpei Yamasaki
In occasione della presentazione di Voice alla 26ª edizione del Far East Film Festival, abbiamo incontrato ad Udine la regista giapponese, oltre al produttore del film. Il resoconto dell’intervista
In occasione della presentazione di Voice alla 26ª edizione del Far East Film Festival, abbiamo incontrato ad Udine la regista giapponese Yukiko Mishima, che ci ha parlato, insieme al produttore Shimpei Yamasaki, del suo ultimo film, delle istanze che cerca di comunicare attraverso il potere lenitivo – se non addirittura psicoterapeutico – delle immagini in movimento, offrendoci anche un ragionamento sui suoi traumi personali, nonché sui fenomeni culturali che stanno attraversando, cambiandolo dall’interno, l’intero settore cinematografico del Sol Levante. Da questa prospettiva Voice appare non solo come una sintesi altamente simbolica del suo percorso poetico, cioè dell’attitudine della cineasta a raccontare i micro-drammi della vita quotidiana, al fine di indagare la condizione di solitudine in cui versano coloro che hanno subito delle tragedie: ma la sua struttura ad episodi le consente di delineare dei ritratti intensi ed evocativi di anime fragili. Unite nell’inesorabilità della (medesima) solitudine.
Partiamo proprio dalla suddivisione episodica del film. Malgrado le tre storie di Voice non abbiano in comune nessuna figura né tanto meno l’intreccio, nel corso della visione si percepisce un forte senso di unità e coesione, dato sì dalla condivisione, da parte dei singoli segmenti, di uno stesso tema (ovvero l’avvento improvviso del lutto) ma soprattutto dalla naturalezza con cui riesci a restituire una connotazione materica al conflitto dei personaggi, penso alle immagini del mare o all’insistenza sui volti, quasi i traumi di cui soffrono assumessero qui una configurazione fisica e tangibile…
Yukiko Mishima: Devo dire che la tua interpretazione è assolutamente corretta. Io, naturalmente, ho cercato di realizzare questo film in modo che lo spettatore fosse portato a formulare diverse interpretazioni ed idee su ciò che ho messo in scena, come quella che hai percepito tu personalmente, e che trovo indubbiamente importante e attinente. Quindi di questo ti ringrazio! Per quello che riguarda invece l’elemento fisico di cui parli, nei primi due segmenti ho utilizzato in termini simbolici il mare, mentre nell’episodio finale mi sono servita del ritratto del volto di Reiko con la finalità di proporre un’idea di salvazione per il personaggio: anche perché, nell’istante in cui vede il suo ritratto, in un momento dove sta rivangando il suo passato traumatico, Reiko trova sé stessa. Alla fine, se ci pensi, cosa c’è in fondo ad un ritratto, se non una persona? E quella figura che lei osserva, riconducibile appunto alla sua stessa fisionomia, le consente di prendere atto della propria soggettività. L’accezione che desideravo infondere a tale elemento, perciò, era perlopiù questa.
Pensando, infatti, ai due elementi appena citati, e alla funzione di “specchio” che assumono nei confronti delle crisi dei personaggi, non mi sembra per nulla casuale che uno dei protagonisti del secondo episodio si chiami “Umi”, il cui nome, in giapponese, significa per l’appunto “mare”.
Yukiko Mishima: Esatto. Come dicevi anche tu, il mare è ciò che collega le tre isole del racconto, consentendo così di mettere in contatto reciproco le persone (e di conseguenza le loro “medesime” condizioni esistenziali) anche al di là dell’assenza di una connessione narrativa tra gli intrecci di cui sono protagonisti tali figure nel corso della narrazione.
Volevo adesso estendere lo sguardo ad alcuni fenomeni che stanno attraversando l’industria in cui entrambi operate. Voi avete spesso lavorato in una cornice indipendente, tanto che Voice è stato distribuito nelle sale nipponiche da una delle case di distribuzione indipendenti più virtuose del paese, ovvero la Free Stone: però ho la sensazione che nel futuro prossimo della cinematografia giapponese, ci saranno sempre meno spazi di fruizione e di aggregazione per i lungometraggi indipendenti, a causa della progressiva scomparsa a cui stanno andando incontro sin dall’inizio della pandemia i cosiddetti mini-theatre, compromettendo così la sostenibilità di un settore fondamentale della cultura cinematografica del Giappone. Ecco, voi come state vivendo questo problema?
Shimpei Yamasaki: Si, assolutamente. La situazione è in linea con quella che hai appena delineato tu. Allo stato attuale, si percepisce una forte riduzione del mercato indipendente: una delle grandi ragioni riguarda certamente la presenza ossessiva dei prodotti realizzati per le piattaforme streaming, mentre un altro motivo lo potremmo individuare nella mancanza di desiderio, da parte di più attori del settore, di accettare contenuti culturali che possano essere di difficile comprensione. Anzi sarei anche interessato ad ascoltare il tuo parere sulle condizioni industriali che vigono nel cinema italiano: perché in Giappone, spesso, quando dobbiamo realizzare un film, bisogna sempre confrontarsi in anticipo su questioni del tipo “questo si capisce? È più o meno intelligibile?” proprio perché alla fine si cercano di utilizzare delle forme facilmente decodificabili, che confluiscono nella situazione che tutti noi artisti ed addetti ai lavori stiamo attualmente vivendo.
Yukiko Mishima: Ricollegandomi a quello che hai detto sui mini-theatre, secondo me sin dal momento in cui è entrata nelle nostre vite la pandemia, è diventato molto più complesso amministrare cinema, teatri e luoghi di cultura. Al tempo stesso, però, come diceva il mio collega, per poter creare un film mainstream è necessario sì adottare delle tematiche più facilmente comprensibili, ma è pur vero che se si vogliono veicolare alcuni particolari temi, risulta ancora possibile dare vita a delle opere indipendenti. Il problema, come hai sottolineato tu, è che esiste un numero sempre minore di cinema che li possono proiettare, perciò sta venendo alla luce questo singolare squilibrio. Io, ad esempio, ho realizzato diversi film con le major: ma nel momento in cui ho percepito il bisogno di dirigere opere più personali, ho pensato che quella indipendente fosse la forma espressiva migliore per infondere respiro alle idee che mi ero preposta di realizzare. Come è stato il caso di Voice, in cui tra l’altro dò voce al trauma derivato dall’abuso sessuale di cui sono stata oggetto in età infantile.