Stardust, di Gabriel Range

Range vuole raccontare il tour americano di David Bowie in supporto a The man who sold the world, ma nel suo film non è possibile ascoltare né la musica né la voce del musicista. Dal #RomaFF15

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Siamo indubbiamente nell’epoca del biopic musicale. Solo nel 2018 Bohemian Rhapsody si portava a casa, alla 91a edizione degli Oscar, ben quattro statuette e il primato come biopic musical di maggior successo nella storia del cinema. Il film sui Queen, e prima il rilancio musical di La La Land, hanno ridato luce commercialmente a questi prodotti, portando in sala sempre più lavori simili (tutti attendiamo il West Side Story di Spielberg), come Rocketman. Dopo Freddie Mercury e Elton John sono iniziati a circolare i primi rumors su tanti altri biopic, come quello su Prince, ma soprattutto uno su David Bowie su cui i fan hanno iniziato a fantasticare da quando Duncan Jones, il regista figlio del Duca Bianco, ha rivelato di avere in progetto un film sul padre interpretato da Tilda Swinton, già attrice in uno degli ultimi videoclip di Bowie, The Stars (Are Out Tonight).

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Ecco che all’improvviso spunta allora Gabriel Range. Candidato ai BAFTA come miglior regista esordiente per The Day Britain Stopped e vincitore del Premio Internazionale della Critica al TIFF per Death of a President, arriva alla Festa del Cinema di Roma con Stardust, film che parla del viaggio in America per pubblicizzare il terzo album di Bowie, The Man Who Sold The World, in attesa dell’avvento di una delle personificazioni più iconiche del cantante, Ziggy Stardust.

Nessuna performance, Range non ha ottenuto alcun diritto sulle musiche di David Bowie né l’appoggio della famiglia. Ma non si riesce comunque a percepire la pesantezza del mondo musicale che gravita intorno al musicista, viene abbozzata una backstory sul germe della follia pronto a colpire anche il nostro protagonista dopo aver colpito altri membri della famiglia, e il tutto diventa un continuo cercare di nascondere al pubblico il grosso problema di voler parlare di Bowie senza poterlo fare “ufficialmente”, un po’ come Van Sant con Cobain in Last Days.

David Robert Jones è un ragazzotto sicuro di se e del suo avvenire che però si deve ancora accontentare delle cover ai convegni sulle aspirapolveri.

Il manager gli promette un tour americano che si trasforma in un tour di interviste, perché David Jones non è ancora né Bowie né Ziggy, e Range è proprio lì che non calca la mano.
Non procede per sottrazione andando a dar vita ad una versione ancor più aliena del personaggio. Quello che sarebbe potuto essere un cantante che non può utilizzare la sua voce se prima non affronta se stesso; trascendendo il suo essere per trasformarsi in quella nuova forma di vita aliena caduta da Marte di cui tutti abbiamo intonato i versi.
Se la castrazione di Bowie poteva quantomeno essere un approccio interessante al progetto, si nota fin troppo come il tutto sia costruito ad hoc per tappezzare il grosso problema riguardo ai diritti musicali. Non assistiamo ad alcun momento di slancio nemmeno in quelle interviste che avevano il “dovere” di far dimenticare le performance e la voce dell’icona bowiana.

Stardust sarebbe potuta essere (al pari del progetto simile su Hendrix, Jimi – All is by my side) una delle occasioni più interessanti e coraggiose di sempre per rigiocare con la struttura stessa del biopic musicale, ma finisce per essere messa in scena nella maniera meno coraggiosa possibile.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
2.3

Il voto al film è a cura di Simone Emiliani

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