Strike or Die, di Jonathan Rescigno

Presentato nella sezione documentari del 45esimo Laceno d’Oro, un’opera in cui si mescolano diversi tranci di vita e che rimane coesa grazie allo sguardo sincero del suo regista

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È un cinema duale quello di Strike or Die, in concorso al Laceno d’Oro 2020 e presentato alla scorsa Berlinale. Si comporta come un magnete, con le sue polarità di segno opposto, e lo fa a partire dal suo titolo. Strike come gli scioperi, quelli che furono portati avanti negli anni ’80 e ’90 in Lorena, Francia del Nord, da parte dei minatori. Strike come i colpi, i pugni che vengono tirati negli incontri di boxe della città vicina alla miniera. Queste sono le polarità verso cui il documentario rimbalza, due scrigni contenenti il senso, portato e custodito dai loro guardiani, dai loro sacerdoti, un vecchio minatore e un maestro di boxe.

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Strike or Die è, infatti, un documentario fatto tanto di luoghi quanto di persone. Ci sono i due amici, figli di immigrati di origine araba, che vagano per la città chiacchierando e sognando il proprio futuro. Ci sono un marito ed una moglie, che in casa discutono della futura testimonianza dell’uomo, che, dopo esser stato vittima di un incidente sul lavoro, non sa cosa rispondere alle false dichiarazioni del suo capo. La loro quotidianità viene ripresa da Rescigno in maniera frammentata, con il documentario che restituisce così delle informazioni che ancora non si sono coagulate in un vero e proprio racconto. Rimangono delle particelle sospese nell’aria, incapaci di sedimentarsi per il troppo movimento (le troppe cose da dire e da fare dei due ragazzi) o per la mancanza di un terreno solido su cui poggiarsi (l’imprevedibilità di un processo ancora da definirsi per i due coniugi). Esperienze, non storie; segmenti, non linee.

Sarà per questo, allora, che il loro mescolarsi con le storie, queste sì, dell’anziano minatore e del maestro di boxe risulta quasi caotico nella prima parte del documentario. La sincerità, però, con la quale Rescigno, qui al suo esordio alla regia, vede il fil rouge di tutte queste vicende nella necessità di lottare, pur non correggendone tutti gli sbandamenti, riesce a riportare Strike or Die sui suoi binari. Così, nel suo incedere il cui passo a volte si fa pesante, il documentario porta all’ebollizione la storia, conclusa ma non esaurita, del minatore e la sua voglia di combattere. Questa evapora e, mescolandosi alle nebbie del tempo, riesce a giungere fino all’oggi, condensandosi sui visi dei combattenti della palestra. L’alternativa, alle loro fronti imperlate di sudore, a volte anche sporcate di rosso, è e sempre sarà solo quella del titolo.

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