The Cats of Gokogu Shrine, di Kazuhiro Soda

Il documentarista giapponese decide di concentrarsi su una delle sue grandi passioni “nascoste”, i gatti. E come sempre riesce a ricostruire il quadro complesso di una collettività. BERLINALE74. Forum

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In piena pandemia, Kazuhiro Soda torna a Ushimado, il piccolo villaggio sul mare nella prefettura di Okayama, in cui aveva già realizzato il bellissimo Inland Sea. Stavolta decide di concentrarsi su una delle sue grandi passioni “nascoste”: i gatti. Già nei film precedenti occupavano lunghe, furtive sequenze, ogni volta che incontravano casualmente l’obiettivo. Ora assurgono a protagonisti assoluti. In particolare i gatti randagi che si aggirano nei giardini del santuario Gokogu, il fulcro shintoista della comunità di Ushimado, e che ormai, grazie ai social, sono diventati un’attrazione per appassionati provenienti da ogni dove.

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Ma, naturalmente, non sono solo i gatti il punto del film. Quanto la complessa trama di relazioni che stabiliscono con la gente del villaggio. Un rapporto di amore, per lo più. Ma anche di preoccupazione, se non addirittura di fastidio, in alcuni casi. Perché, oltre ad attirare l’attenzione e le amorevoli cure di tutte le persone che accorrono per assisterli, dargli da mangiare, per fotografarli o per utilizzarli come un antidoto allo stress quotidiano, i randagi di Gokogu sollevano anche una serie di problemi insospettabili. Tra deiezioni non raccolte, rischi igienici, disordine… Perciò, il piano della comunità è di procedere a un programma di sterilizzazione generale. Evitare così il sovrappopolamento, curare nella migliore maniera possibile gli ultimi esemplari, grazie al sostegno di un gruppo di volontari, e porre quindi termine al fenomeno.

È evidente come il cinema di Kazuhiro Soda stia diventando sempre più crepuscolare. Già Inland Sea era, in fondo, un film sulla vecchiaia, sulle comunità che si spopolano e sulla vita che resiste, nonostante tutto. Così come il successivo Zero, che accompagnava al ritiro il dottor Yamamoto, già protagonista di Mental. Seguendo questo percorso, Soda racconta anche qui un mondo in via di sparizione. Di cui cerca di trattenere la poesia struggente e gli umori sottili, tutto quel segreto di vita che si condensa negli ultimi istanti, nei passaggi della linea. In quelle zone d’ombra in cui i margini si sfaldano. Non è un caso che anche questo Gokogu no neko (The Cats of Gokogu Shrine) sia un film abitato per lo più da persone anziane, da pensionati che riempiono con mille piccoli riti il tempo sospeso della loro età, che pescano a un metro esatto dal parcheggio perché non hanno voglia di camminare. Così come non è un caso che il film racconti la precarietà dei gatti randagi, l’orizzonte di vita breve. Fino a rendere omaggio ai morti, che siano persone o animali poco importa.

Eppure, non c’è cupezza. Perché quello di Soda resta un cinema dolce e sorridente, tenacemente vitale, nonostante tutto. Uno sguardo umano, che riesce a creare profonde trame di relazione e che riesce a costruire racconti corali, a disegnare il quadro complesso di una collettività a partire da prospettive eccentriche. Al punto che qui c’è un fantastico momento assembleare, wisemaniano. Ma, a differenza del grande maestro, tutto il metodo di osservazione di Kazuhiro Soda, con il suo decalogo, sembra sempre sul punto di “disintegrarsi, azzerando ogni distanza e mandando in crisi la posizione autoriale. Il regista interviene, partecipa, ma soprattutto si mette in gioco, lasciandosi addirittura interrogare o guidare nelle riprese dalle indicazioni degli altri. A dimostrazione che questo cinema in soggettiva non ha nulla di impositivo. La vita, del resto, non è un punto fisso.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
4.5
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