The Devil’s Bath, di Veronika Franz e Severin Fiala

Nato da uno studio d’epoca, è un horror atipico, con una messinscena grandiosa e un’ottima fotografia, e forse ha come unico difetto di eccedere nel simbolismo. BERLINALE74. Concorso

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Veronika Franz e Severin Fiala per questo secondo lungometraggio di finzione dopo The Lodge, presentato al Sundance e visto in Italia al Torino Film Festival, continuano a battere la pista horror in una produzione di Ulrich Seidl, con il quale la Franz collabora in scrittura dal 1997. Il paesaggio sommerso dalla neve lascia posto ad una foresta, alle ombre e alle nebbie che l’avvolgono, ai fiumi che l’attraversavano. Partendo da una storia realmente accaduta i due registi spostano l’asse temporale di qualche secolo, nel 1750, in Austria Superiore, per svelare una storia inedita e dolorosa, venuta alla luce grazie alle ricerche di Kathy Stuart che riguarda soprattutto la condizione domestica delle contadine dell’epoca e i tragici eventi accaduti nella zona. La sorte toccata ad Agnes è una sciagura, succube di un deleterio fanatismo religioso. Dopo il matrimonio con Wolf finisce in un incubo, viene trascurata dal marito e costretta a lavorare duramente per non deludere le aspettative della suocera, una donna severissima.

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L’inquietudine del film si respira sin dal principio con un efferato matricidio, e la successiva sanguinosa condanna a morte. Primo indizio del clima maligno che abita i boschi, qualcosa di molto simile al diabolico The VVitch di Eggers, un topos diffusissimo quello di qualcosa di sconvolgente annidato tra gli alberi, anche se pensiamo a Twin Peeks o ad Antichrist. La messinscena di grande impatto visivo sfrutta con grande vantaggio il paesaggio, insieme ad una fotografia impostata sui toni del buio, la luce delle candele, la luna in cielo sovrana degli spiriti angosciati in cerca di prede. Abbondano dettagli macabri, le dita mozzate con un’ascia, suicidi, il caprone sgozzato (classico emissario demoniaco), gli eventi inspiegabili, tutto concorre a spingere Agnes verso la follia. Ma la linea di genere orientata sul paranormale è il paravento di una crudeltà tutta umana di cui la protagonista cade vittima, e qui la vicinanza con il cinema di Seidl è molto forte, mentre la distanza è maggiore nel cinismo, qui totalmente assente, e questo potrebbe essere da alcuni considerato un merito.

Prodotto per certi versi atipico del panorama festivaliero, soprattutto considerato il suo inserimento in concorso, The Devil’s Bath rinuncia ai canoni moderni della paura, jumpscare e quant’altro, per evocare qualcosa di sinistro, di subdolo, un’infezione che si diffonde silenziosa con il favore delle tenebre. Lasciando intendere l’oscurità come il risultato dell’ ignoranza e del pregiudizio, dell’indifferenza verso il malessere, una disumanità dove niente potesse mettere un freno ai sintomi della malattia prima di arrivare al disastro. L’autorialità dello sguardo, conseguenza di un approccio filologico, limita parzialmente la riuscita per un esegesi di immagini nel simbolico forse eccessiva. Resta tuttavia un risultato di valore, anche storico, come viene spiegato nelle didascalie finali, ed offre una prospettiva inedita sul periodo di riferimento.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3.5
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Il voto dei lettori
4 (1 voto)
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