The Seed of the Sacred Fig, di Mohammad Rasoulof

Ormai esule, Rasoulof continua la sua battaglia contro il regime iraniano. Con un’altra storia che si fa metafora degli abusi e delle repressioni. CANNES 77. Concorso

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Non accenna a cedimenti il cinema Mohammad Rasoulof, che continua la sua battaglia di opposizione contro le autorità iraniane. Solo alcuni giorni fa si è saputo che il regista è riuscito a giungere in Europa dopo aver lasciato clandestinamente l’Iran, per scampare a una condanna di otto anni di reclusione, confermata in appello. Ora la sua nuova vita da esule riparte da Cannes, dove presenta in concorso il nuovo, molto atteso The Seed of the Sacred Fig. Ancora una volta una metafora costruita intorno agli abusi del regime degli ayatollah.

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Iman ha appena ottenuto una promozione a investigatore presso la procura del tribunale. Il nuovo incarico rappresenta uno scatto di carriera importante, che apre prospettive di una vita più agiata. Ma anche problemi di non poco conte. In termini di coscienza personale. E di sicurezza per sé e la sua famiglia, la moglie e le due figli. Nel Paese sono sempre più accese le proteste contro il regime. La repressione è feroce, ma contribuisce ad alimentare la rabbia della gente nei confronti dei giudici e delle forze dell’ordine. Per ragioni di sicurezza, quindi, Iman prende in consegna una pistola. Ignaro che proprio quell’oggetto avrà un peso determinante nel suo destino e in quello della sua famiglia.

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Come già nei quattro episodi de Il male non esiste, Rasoulof parte dalla questione morale di un personaggio che si ritrova al bivio tra la coscienza e il dovere, costretto ad affrontare i mostri delle proprie responsabilità. Ma è solo un punto di partenza. Perché non è lui il cuore del film: il solo fatto di essere dalla “parte sbagliata” (e su questo non possono esserci dubbi), lo condanna inesorabilmente a stare nell’ombra. Fino a essere l’ombra. Rasoulof, invece, si concentra sulle donne della storia, coerentemente con lo spirito dei tempi e le infuocate proteste per la morte di Mahsa Amini (la cui immagine, ovviamente, appare nel film). Dunque, sono la moglie Najmeh e le due figlie, Rezvan e Sana, il vero fulcro del discorso politico di The Seed of the Sacred Fig. Che ruota intorno alla dialettica delle loro posizioni e delle loro reazioni, il modo in cui si rapportano all’autorità del capofamiglia e quindi, più in generale, alle gabbie stringenti della teocrazia. Ed è qui che vengono in rilievo le differenze generazionali. Perché se le ragazze sono pronte a mettere in discussione quest’autorità, chi in modo più istintivo e giocoso (la minore, Sana), chi in maniera più consapevole (la maggiore, Rezvan), Najmeh farà più fatica a liberarsi dalle imposizioni del suo ruolo di moglie e madre, sospesa tra la devozione al marito, l’egoistica difesa della sicurezza familiare e la percezione delle ingiustizie del sistema.

Del resto, la protesta dei giovani forma la sua coscienza sui social, su canali d’informazione che sfuggono alle manipolazioni della versione ufficiale e ai controlli della censura. Per le ragazze di The Seed of the Sacred Fig è naturale utilizzare un VPN, esattamente com’è naturale desiderare un vestito più attillato, una tinta dei capelli o uno smalto per le unghie. Ed è proprio attraverso i video e i reel recuperati in rete che Rasoulof può restituire il dato immediato dell’infuocata situazione politica e sociale iraniana. Aprendo alla strada, alle immagini di piazza, un film in gran parte costretto in interni o in ambientazioni marginali, per evidenti problemi di permessi e limitazioni produttive. Questo gioco di formati e di dispositivi è l’unico ragionamento sulle immagini che Rasoulof si concede. D’altronde, il suo cinema non ha le stesse urgenze teoriche di Panahi. Per il resto, il film mantiene la barra dritta, per concentrarsi sul crescendo delle tensioni familiari, sulla progressiva deriva folle di Iman, che finisce per replicare con moglie e figlie le stesse strategie inquisitorie e repressive del regime. L’intuizione è straordinaria. Ma l’impressione è che l’afflato di Rasoulof abbia perso un po’ di mordente. Soprattutto rispetto a Il male non esiste, dove la percezione dell’abisso che si spalcava nell’anima dei personaggi e nella dinamica dei rapporti era a tratti insostenibile. Qui, nello sviluppo drammatico e nell’immagine simbolica del finale, c’è qualcosa di troppo meccanico, quasi forzato. La necessità di portare il discorso alle estreme conseguenze prende il sopravvento. Producendo uno spiazzante scarto di toni, un leggero fuori fuoco negli occhi. Ma le intenzioni non ammettono obiezioni.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3.2
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Il voto dei lettori
4 (2 voti)
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