TORINO 31 – All isn't Lost

Chiuso il Festival, tempo di bilanci. Ma dopo le tante polemiche pre e post Evento, sicuramente evitabili, all is lost? Tutto perso nel mare in tempesta del nostro Belpaese? No. Perché per fortuna resiste la formula Festival come luogo fisico e mentale, come esperienza quotidiana e umana…

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Chiuso il Festival, tempo di bilanci. Anche per il direttore artistico Paolo Virzì che non ha ancora sciolto il dubbio sulla sua permanenza il prossimo anno a Torino, chiedendo un breve periodo di riflessione. Ma solo dopo, ovviamente, aver snocciolato tutti risultati positivi: aumento di spettatori paganti, aumento considerevole dei biglietti venduti (34% di incassi in più), rivendicando anche il suo ruolo di semplice “vessillo di una corazzata affiatata che lavora benissimo ormai da anni”. Ora: non c’è dubbio che il piglio istintivo e irruento del nuovo direttore ha smosso parecchio le acque del Festival, sia prima (polemica con Roma e successiva puntualizzazione), sia dopo (piccata risposta a Ken Loach con pesante giudizio sul Movimento 5 Stelle annesso), cadendo suo malgrado in qualche “trappola mediatica” di troppo. Sicuramente evitabile. Ma qui dovremmo aprire un lungo discorso sulle ruggini croniche del nostro Paese, sul perché l’attenzione (e quel che è più grave, a volte gli stessi giudizi complessivi…) di molti giornalisti o addetti ai lavori venga irrimediabilmente calamitata da questioni superficialmente “politiche” che hanno ben poco a che fare con il cuore pulsante di un Evento. E non c’è dubbio, come scrive Aldo Spiniello, che a questo punto è la stessa formula Festival (intimamente novecentesca?) a manifestare qualche ruggine di troppo e forse andrebbe attentamente ripensata alla luce delle complessità del nuovo millennio. Discutiamo.

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E tant’è: noi siamo ancora qua, provando a navigare controcorrente come ci sprona a fare il vecchio Marlowe (Elliot Gould) e a dare enorme attenzione (con i fatti) a ciò che amiamo e difendiamo da sempre. Il cinema. Perché scusate la candida ingenuità: ma non è per questo che si organizzano ancora i Festival? Ecco: se le polemiche (di ogni segno o colore) sull’autostrada Roma-Torino offuscano mediaticamente la vittoria o le opere stesse di Fernando Eimbcke o Alberto Fasulo, questo non è un problema? Non si dovrebbe aprire un dibattito anche su questo oltre ai roboanti titoli sugli affaire Johansson o M5S? E allora: All is Lost? Tutto perso nel mare in tempesta del nostro Belpaese? No, decisamente no. Perché per fortuna resiste la formula Festival come luogo fisico e mentale, come esperienza quotidiana e umana. Ed è ancora impagabile. Questa Torino 31 targata Paolo Virzì e Emanuela Martini ha confermato l’aria di crescita che si respirava negli scorsi anni: un evento straordinariamente metropolitano (forse l’unico in Italia), con una città che partecipa in massa, viva e interessata, a ogni diramazione o sconfinamento proposto dal programma. Imbattersi in sale piene e ricettive per film follemente sperimentali come La ultima pelicula (Onde), radicalmente teorici come L’image manquante (TFF Doc) o per vecchi intramontabili classici come Night Moves (retrospettiva New Hollywood) è un chiaro segnale di vigore culturale. Merito di quella città, certo, ma merito anche di chi ha saputo stimolarla.

Le sezioni Onde e Tff Doc si confermano di altissimo livello. La prima con una selezione di film (con la vetta assoluta di Noche) che quest’anno in particolare si è contraddistinta per l’età media molto bassa dei cineasti portati a Torino e per uno sguardo sulla contemporenaità a volte scioccante (indicativa la selezione dei due film greci To the Wolf e Luton), a volte rigenerante (come la sublime luce che ci regala Yu Likway). La seconda con una selezione forse più rodata negli autori proposti, ma capace di stupire per la capacità del documentario odierno di incidere la carne viva (vedi il felice esperimento di Striplife) o le storture del nostro tempo. Opponendo una profonda onestà di sguardo e fertili sconfinamenti nella pura finzione del cinema e dei suoi miti (come sottilmente ci invita a fare Robero Minervini).

Un buon Concorso poi. Senza entusiasmi però, perché qualche dubbio è giusto porlo. L’anima della Torino che fu – quella del “festival giovani” capace di scoprire un cinema alieno e straordinariamente adulto in giro per il mondo – in qualche modo resiste. Ma a un po’ a fatica. Si conferma quest’anno il leggero appiattimento sull’indie americano già notato in anni precedenti (straordinaria fucina, per carità, ma ultimamente un po’ in crisi anch’essa, vedi Blue Ruin) e quella difficoltà a sondare nel profondo il Medioriente o l’Est asiatico come miniere inesauribili di giovani talenti. Un concorso che ha saputo proporre comunque tre vere perle venute dalla Francia (Vandal, La bataille de Solferino e 2 automnes 3 hivers) e che ha saputo ben intercettare la forte rinascita del cinema sudamericano (Pelo Malo e il vincitore Club Sandwich). Con qualche perplessità, pertanto, ma bilancio complessivamente positivo. La Festa Mobile rimane tale: una bella scorribanda sul cinema popolare che attrae e diverte, commuove e ci interroga. Una sezione che sopravvive come i vampiri nella notte nell’applauditissimo gioiello di Jim Jarmush: se c’è passione c’è cinema. E poi ancota la notte degli After Hours, una sezione ripensata rispetto alla vecchia Rapporto Confidenziale, capace di aprirsi di più alla contaminazione di genere o delle epoche storiche (da Jodorowski a Crispino, per arrivare a Shane Meadows).

Nota a margine, il colpo al cuore della retrospettiva New Hollywood. Una scelta che era stata da più parti (anche da chi scrive) sin troppo in fretta bollata come “ovvia”, dalla dubbia utilità visto la “fama” che quei film vantavano già sul grande pubblico. E invece: si deve per forza di cose fare i conti con la contemporaneità, con la “crisi” della fascinazione pura che il cinema sta subendo negli occhi delle giovanissime generazioni. Una crisi che si affronta anche facendo brillare la memoria più “ovvia” e conosciuta per investire sul futuro. Vedere tanti giovanissimi spettatori comprare il biglietto, fare la fila e affollare la sala per film come Lo Spaventapasseri, Non torno a casa stasera o Wild Angels e poi alla fine sentire commenti estasiati per un film “che non avevo mai visto, possibile?” è chiaramente un bel segnale. Pellicole a volte rovinate e non in perfette condizioni, fantasmi di ultime pelicule che fanno veramente fatica a scorrere in quel proiettore, ma che intelligentemente sono state riproposte come tali. Perché anche quella fatica o quei graffi violenti al fotogramma sono una memoria da riproiettare. La retrospettiva è stata, nei fatti, una scommessa vinta per il duo Virzì-Martini.

Insomma: un’edizione con molte luci e qualche ombra. Complessivamente di ottimo livello, ma bisognosa di maggiore coraggio e intuizioni per la sezione Concorso. Un’edizione che dimostra comunque, al di là di ogni polemica o riflessione, che non tutto è perduto. Che il Film in Sala può attrarre ancora le folle e non solo gli assonnati addetti ai lavori. Che il cinema, "piccolo uomo” in un mare in tempesta, sta lottando ancora come un vecchio leone per la sua sopravvivenza. Come l’intramontabile sguardo di Robert Redford che non smette mai di indicarci la via. All isn’t lost. Per fortuna.

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    Un commento

    • Mi sembra eccessiva questa critica: in Italia abbiamo Venezia, Roma e Torino in Uk al London Film festival hanno in competizione film come "Like Father, Like Son" e "Tom at the Farm", film giá presentati a Cannes e Venezia.E' corretto? Dove vivo (in Irlanda) sembra di essere nel terzo mondo per via di festival cinematografici (link del London Festival :https://whatson.bfi.org.uk/lff/Online/default.asp?BOparam::WScontent::loadArticle::permalink=official-competition