#TS+FF2019 – Futurologia: Steampunk Connection, Memory, I Am Human

Tre documentari della sezione Futurologia, estremamente diversi tra loro ma accomunati dalla fascinazione estrema per la (fanta)scienza, da quella “classica” di Alien a quella “reale” di I Am Human

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Futurologia è la sezione di documentari a tema (fanta)scientifico del Trieste Science+fiction Festival. Tre opere differenti, che viaggiano tra comunità e fandom appassionati, ricostruzioni di grandi “miti” del genere cinematografico e innovazioni tecnologiche ad alto (ed inquietante) tasso profetico.

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Steampunk Connection, di Annie Deniel 

Presentato in anteprima internazionale, in questo documentario la regista Anne Deniel ha seguito per ben tre anni altrettanti membri della comunità steampunk, che annovera 4 milioni di seguaci nel mondo, un movimento artistico che si ispira tanto alla fantascienza quanto alla Rivoluzione Industriale. Divisi fra Canada ed Europa, Clara, Daniel e François, sono solo alcuni, quindi, dei moltissimi protagonisti “reali” di questa pellicola, appassionati “outsiders” dell’epoca vittoriana, di una fantascienza retrò (riportata in auge al grande pubblico, recentemente, dalla serie con Orlando Bloom, Carnival Rowdi Amazon Prime Video), dagli affascinanti quanto caratteristici costumi.

Il lavoro di Anne Daniel, dedicato non a caso agli scrittori Jules Verne, naturalmente invita ad andare oltre all’apparenza, utilizzando la forma del documentario, appunto, per approfondirne la psicologia. Quello che si evince, innanzitutto, è la scelta decisa e consapevole verso un diverso tipo di approccio creativo al mondo. Sono le invenzioni, più che i costumi, comunque meravigliosamente elaborati, a rivelare ciò che probabilmente li distingue da ogni altro tipo di “cosplay” o rivisitazione in costume. Attraverso la creatività offerta dallo steampunk, Clara, Daniel e François possono esprimere il proprio lato artistico nascosto, la propria personalità. Sarà proprio uno di loro a rivelarlo in una delle molte interviste a riguardo, ossia che il “vero costume” è quello mostrato alla società, in cui non si sentono a proprio agio o che, semplicemente, non gli dà l’opportunità di esprimersi allo stesso modo.

Un concetto fondamentale che, a sua volta è legato a due intriganti aspetti. Il primo è quella legato alla tecnologia, che nel mondo contemporaneo ha di fatto diminuito o quantomeno celato il fattore umano dalle innovazioni odierne. In questo modo, lo affermano loro stessi, i membri dello steampunk non sono più “spettatori”, ma si riappropriano della tecnologia. Da qui arriva il gusto per gli “ingranaggi”, i quali non hanno un fine puramente estetico, ma addirittura filosofico: sono più rassicuranti semplicemente perché, al contrario degli smartphone e simili, si vedono. Il secondo aspetto invece è ancor più umano e personale, e ruota naturalmente attorno all’idea di comunità. Attraverso i diversi reportage in fiere tematiche, l’occhio della regista è abile a catturare lo spirito di unione, quasi di “famiglia”, che illumina i loro volti, i loro sorrisi, perché finalmente hanno trovato il proprio posto nel mondo.

Memory: The Origins of Alien, di Alexandre O. Philippe 

Nel 2019 si celebrano i 40 anni dall’uscita in sala di AlienMemory, presentato in anteprima italiana, ci conduce alle origini, inconfessate e inquietanti, del capolavoro cinematografico di Ridley Scott attraverso testimonianze, riletture e soprattutto portando alla luce un tesoro di materiali inediti.
In questo ricco excursus storico, il lavoro di documentazione di Alexander O. Philippe si distingue per la sua attenzione ad ogni singolo aspetto del mito, senza tralasciare nulla e  rivelando così l’intento, poi confermato da lui stesso essendo ospite della manifestazione, di non voler assolutamente fare il solito documentario/making of. E proprio da lì si parte, da da tutti gli innumerevoli riferimenti di Alien ora alla mitologia greca ed egizia, ora all’underground del mondo fumettistico, fino alla parassitologia, alla bizzarra letteratura di H.P. Lovecraft e all’arte di Francis Bacon. D’altronde è lo stesso sceneggiatore Dan O’Bannon, come riporta uno degli intervistati, ad aver dichiarato:”non ho rubato a nessuno, ho rubato a tutti“. E tutta quest’atmosfera mitica si propaga fino a circondare, con vette commoventi, il trittico di menti che ha dato vita all’opera, ossia lo stesso O’Bannon, il designer H.R. Giger e naturalmente Ridley Scott.

In particolare, il regista svizzero si concentra proprio sullo sceneggiatore (il cui nome, forse non a caso, salta curiosamente fuori a Trieste già per la seconda volta), ripercorrendone la carriera, raccontando il momento in cui era al verde, dopo il fallimentare progetto del Dune di Jodorowsky e viveva sul divano di Ron Shusett, il quale figura tra gli intervistati insieme alla stessa moglie dello scrittore. Tutta la pellicola respira della particolare predilezione mista a fascinazione nei confronti dello scrittore da parte del regista, che insieme ai propri collaboratori, è investito di quest’aura di leggenda che esalta il montaggio e le diverse testimonianze che si avvicendano. Tra queste, è proprio Shusett ad introdurre, attraverso un gustosissimo aneddoto, com’è nata l’idea della scena dell’iconico chestburster, il cui approfondimento occuperà quasi l’intera seconda parte del film.

La scena più iconica e seminale di tutte, dopotutto, doveva essere l’unico argomento del documentario, all’inizio del progetto, e si vede. Non solo per il corposo minutaggio ad essa dedicata, ma per come viene scandagliata fino al minimo dettaglio di realizzazione. Il mito ritorna ancora una volta, s’intuisce che attorno ad essa è dipesa tanto la riuscita del film, della sua atmosfera e dell’evoluzione dei personaggi, quanto del concreto successo al box-office. Attraverso di essa, Alexandre O. Philippe fa evidentemente risalire il genio di O’Bannon e il coraggio visionario di Scott. Al tempo stesso, anche mediante le diverse quanto interessanti interpretazioni degli intervistati (che arrivano a rileggere Alien in chiave conradiana e imperialista), riesce ad esaltare la portata di quest’opera, la quale anche dopo continue repliche ed innumerevoli citazioni successive, è ancora oggi così influente e “viva”.

I Am Human, di Taryn Southern e Elena Gaby 

Il documentario, presentato in anteprima internazionale, segue il coraggioso viaggio di tre fra i primi “cyborg” al mondo e degli scienziati che lavorano per svelare i segreti del cervello umano, tra cui l’ospite del festival Tracy Laabs (come anticipato da lei stessa negli Incontri di Futurologia). Il film di Taryn Southern e Elena Gaby sviscera le crescenti complessità e le reali possibilità di un’industria che mette in discussione l’autentica essenza della parola “umano”.

In fondo è proprio con la domanda:”cosa vuol dire oggi essere umano?“, che le due registe scelgono di aprire l’opera. E per cercare la complessa risposta, partono dall’aspetto più umano possibile, raccontando cioè i diversi disturbi neurologici di cui Bill, tetraplegico, Anne, ammalata di Parkinson, e Stephen, non vedente, sono affetti. Tutte le loro presentazioni sono anticipate dal titolo “I am…” a cui segue il loro nome, e con estrema sensibilità viene mostrata la loro infinita umanità, ossia come la loro vita è cambiata drammaticamente col giungere dei disturbi, fino a renderla concreta e “fisica” attraverso la spiegazione grafica di ciò che accade al loro cervello. Da qui nasce la loro toccante speranza di un futuro migliore, di poter sognare di “ritornare umani“, come afferma uno di loro, paradossalmente proprio attraverso la macchina.

La tecnologia e rivoluzione cognitiva, in grado di trasformare l’umanità, finisce quindi con l’emergere pian piano fino a diventare la vera protagonista della pellicola. Sembra di vedere un episodio di Black Mirror o di Westworld, vista la fotografia metallica o ancora il ritmo e le musiche avvincenti con cui vengono spiegate e mostrate le diverse operazioni. Se non fosse, però, che è tutto vero, ed è probabilmente questa la suggestione più potente della pellicola.
A questo punto, infatti, i tre protagonisti vengono per un attimo “accantonati”, per perdersi (forse eccessivamente) in analisi e suggestioni offerti dalle innovazioni tecnologiche, dal possibile potenziamento delle capacità umane al curare non solo disturbi “fisici” ma anche “mentali”, come la depressione; fino all’eventualità di poter usufruirne per sviluppare la propria concentrazione; per arrivare alle ipotesi più straordinarie (proprio perché concrete) come la telepatia o la Neuralink di Elon Musk. E quello che Taryn Southern ed Elena Gaby sembrano chiederci, in una (apparente) conclusione profetica alla Michael Moore, e se siamo davvero pronti alla rivoluzione imminente, la quale addirittura nasconde pericoli inquietanti come il controllo delle nostre menti e coscienze, nel caso tali tecnologie fossero usate dalle persone sbagliate. Conclusione solo apparente, come detto, perché le due registe chiuderanno in realtà l’opera con una svolta speranzosa, quasi consce della grave “dimenticanza”, ripescando al momento giusto le storie dei miracolosi “cyborg”, da cui tutto era partito e a cui tutto dovrebbe essere, in fondo, giustamente dedicato.

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