Vogter, di Gustav Möller

Möller torna ad indagare la questione morale negli individui in divisa con una storia ambientata in carcere che perde di intensità e ritmo verso il finale. BERLINALE 74. Concorso

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Cosa faresti se avessi casualmente tra le mani la persona che più detesti al mondo? Come ti comporteresti se la persona che ti ha rovinato la vita fosse in una posizione di difficoltà e in tuo completo potere? Sei anni dopo l’apprezzabile Il colpevole – The Guilty, Gustav Möller torna ad affrontare il dilemma etico e morale negli individui in divisa, stavolta all’interno di un carcere. Vogter, letteralmente “guardiano”, racconta la storia di Eva (Sidse Babett Knudsen), una guardia carceraria dall’animo gentile che cerca di mantenere un buon rapporto con i suoi detenuti. La situazione cambia nel momento esatto in cui arriva nel carcere un giovane di nome Mikkel (Sebastian Bull) ed Eva, inventando una scusa col direttore, chiede il trasferimento nel blocco di massima sicurezza per tenere il ragazzo sotto controllo. Fin da subito l’ossessione della donna per il giovane è lampante e sottolineata a dovere dal regista, ma solo col passare dei minuti diventa realmente chiaro il motivo esatto di tale insistenza.

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Per certi versi il lavoro del secondino ricorda molto il ruolo pedagogico che spetta a un genitore. Bisogna sorvegliare con attenzione, educare il più possibile, punire o premiare a seconda dei momenti, ma soprattutto l’obiettivo principale resta la preparazione al mondo esterno, l’inserimento o reinserimento nella società civile. C’è qualcosa di molto materno nel modo in cui Eva sveglia ogni mattina i detenuti del suo blocco, come tanti figli nelle loro stanze di cui deve prendersi cura, sia quando si tratta di rimproverarli e sia quando si trova a tenere delle lezioni collettive di yoga. Questa dinamica madre-figlio svanisce quando si trova ad avere a che fare con Mikkel, con lui inizia a comportarsi in maniera opposta, cominciando con dei piccoli dispetti per poi aumentare gradualmente il livello del tormento. Il punto di non ritorno è il giorno della visita in carcere della madre di Mikkel, lì Eva perde il controllo e decide di compromettere del tutto la vita del ragazzo, anche a costo di rischiare lei stessa in prima persona.

Sidse Babett Knudsen ha l’intensità giusta per interpretare un ruolo del genere, capace di alcuni momenti di tenerezza e altri di furia incontrollata. Lo sguardo di ghiaccio e l’espressione severa ricordano molto quelli di Jodie Foster, in particolare nel caso della recente quarta stagione di True Detective: Night Country. Il regista mantiene Eva al centro del racconto e dell’inquadratura, noi seguiamo il suo percorso emotivo attraverso il suo sguardo e il suo punto di vista. Non usciamo mai fuori dal carcere – se non per una singola ma significativa sequenza – non conosciamo la vita della donna al di fuori di quelle mura e in fin dei conti neanche ci interessa. L’intero universo di Eva è ormai concentrato nel suo posto di lavoro, fuori per lei non c’è nulla, non più almeno, e questo aspetto la rende molto simile ai detenuti che è tenuta a sorvegliare.

Möller segue Eva con camera a mano, un modo per restituire il senso di instabilità ed incertezza che caratterizza il personaggio. Quando la situazione inizia a capovolgersi e Mikkel prende in mano la situazione, lo sguardo di Eva cambia, da soggetto attivo e predatore a preda passiva e oppressa. Nel momento del cambio di percezione il regista allenta la tensione non riuscendo a mantenere quel ritmo che aveva contraddistinto la prima parte del film. Il rapporto con i colleghi rimane su un livello fin troppo superficiale, ed è un peccato data l’impressione di solidarietà cameratesca che si intravede nell’ultimo atto. La relazione tra Eva e Mikkel è chiaramente la più dettagliata e approfondita del film, giocata gran parte sul piano vittima-carnefice in un continuo ribaltamento dei ruoli che coinvolge sì, ma arrivati ad un certo punto della storia risulta davvero ripetitivo.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3
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Il voto dei lettori
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