You’ve Got a Friend, di Ryuichi Hiroki

Hiroki torna alle origini erotiche del suo cinema, per tracciare un viaggio intimo nella sessualità di due anime desolate. Mancano le solite vertigini. Eppure ci seduce con la sua leggerezza. Dal FEFF

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Quelle rare volte in cui Ryuichi Hiroki si sofferma su storie a trazione maschile, i suoi film sembrano sempre interessati da una svolta simbolica. Relativa non tanto ai contenuti o alla definizione delle istanze narrative. Quanto ai modi in cui le crisi (emotive, esistenziali, identitarie) si rivelano negli spazi del racconto. Il conflitto del protagonista, che appartenga alla sfera dei sentimenti (come nelle sue narrazioni più mainstream) o ai disagi legati alla socialità, resta più o meno lo stesso. Ciò che qui muta è il rapporto tra il personaggio e la realtà circostante, ovvero quella dinamica che in Hiroki si fa veicolo e vettore di un’evoluzione – o involuzione, a seconda dei casi – riflessa solitamente in uno spostamento spaziale. Se nel vagheggiare di una donna-in-movimento troviamo infatti il tentativo di elaborare un lutto (pensiamo a Last Words, River o Side Job) o di prendere coscienza del proprio posto nel mondo (come in Girlfriend, Vibrator, Tokyo Trash Baby) nel caso dell’uomo è il confinamento in un luogo statico a suggerire l’eviscerazione del suo dissidio. In un immobilismo che riemerge in questo You’ve Got a Friend, per caricarsi di una forte natura drammaturgica.

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Da questa prospettiva, il modo in cui Hiroki introduce il protagonista in You’ve Got a Friend sembra rispondere quasi programmaticamente alla dialettica appena delineata: vediamo Yoshida (Jun Murakami) incatenato ad una “sedia del piacere” mentre la dominatrice Miho (Nahana) è sul punto di perforargli un testicolo con un chiodo. La pratica da BDSM procede senza intoppi né particolare enfasi, tanto che l’uomo non emette nemmeno un grido di dolore, come se vivesse in uno stato di assoluta immobilità esistenziale. Il masochismo, scoperto quattro anni prima per pura casualità, è la sola “deviazione” da una vita banalmente ordinaria, l’unico appiglio a cui Yoshida si aggrappa per sentirsi vivo. Eppure, adesso, è arrivato ad una tale condizione di insensibilità da non essere più in grado di trovare gioia, sollievo – se non addirittura salvezza – nelle vessazioni corporali. Una conseguenza che Hiroki lega alla narcosi quotidiana del salaryman, iscritta in un ambiente irresolubilmente stagnante. Da cui bisognerà affrancarsi, per poter individuare una “cura” per il malessere dei tempi correnti.

Proprio come in Tokyo Love Hotel, anche in You’ve Got a Friend è il rapporto con l’altro sesso a determinare la “rinascita” del protagonista. Una ripresa che ha la sua origine, come sempre accade in Hiroki, nell’esplorazione della sessualità dell’individuo. È in questa dimensione, forse la più cara al regista data la sua lunga formazione nei pinku eiga (film erotici), che troviamo tutto il senso – e la forza – del film. Il cineasta giapponese, infatti, dà qui prova di una grande lucidità, non solo per come evita di cadere nelle facili trappole del “trauma infantile”, fin troppo (ab)usato nelle storie di prostituzione/bondage, ma anche per l’originalità con cui intreccia l’anestesia (sessuale, sensoriale) a cui tende Yoshida con un percorso di ri-attivazione corporea. Prefigurando così una traiettoria che porta la fisicità dell’uomo verso una transizione semantica: con il corpo inteso non più come il ricettore unico del piacere; ma come strumento di conforto reciproco.

È il riposizionamento di Yoshida da oggetto (passivo) di erotismo a catalizzatore (attivo) del piacere a condurre i due protagonisti/partner alla catarsi. Finché viaggiano su linee parallele, entrambi sembrano destinati a soccombere alla loro condizione di anime desolate. Ma è nel momento in cui superano l’asimmetria della relazione professionale che li lega ed iniziano ad avere rapporti egualitari – soprattutto nel sesso – che arrivano a comunicare ad un livello più profondo, intimo. In cui la condivisione della solitudine diventa lo strumento per ridestarsi dall’anestesia del quotidiano, e tornare ad esistere al di là del sentimento di inerzia che attraversa la piccola cittadina in cui (soprav)vivono. E per quanto You’ve Got a Friend non goda dello spessore introspettivo del miglior cinema di Hiroki, né elettrizzi il pubblico con una delle sue classiche vertigini emotive, ci seduce attraverso la sua levità. Con i protagonisti che si liberano dalle catene della paralisi. Per poi tornare a muoversi. Lontano da quelle “croci” che, inconsapevolmente, scambiavano per benedizioni.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3.5
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Il voto dei lettori
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