“Brucio nel vento”, di Silvio Soldini

Un film figlio di un conflitto, tra il lato “razionale” e quello “emozionale” di Soldini, che risulta come “spezzato” – vera e propria “anima divisa in due” – tra l’orrore/incubo della vita così com’è e il godimento /piacere di come dovrebbe essere

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Forse, paradossalmente, il difetto maggiore di questo quinto lungometraggio di Silvio Soldini è la sincerità. Il volere narrare, raccontare esclusivamente le cose che si sentono, il bisogno/necessità di “accattivarsi se stessi”, per uscire fuori dalle logiche che dominano l’immaginario collettivo e praticare solo ed esclusivamente il proprio gioco, il proprio cinema, la propria voglia di fare cinema. L’impressione che si coglie alla visione di “Brucio nel vento” è proprio quello di uno scontro, tra ciò che Soldini ha realizzato nella sua ormai quasi ventennale carriera di cineasta, e la deriva “spettacolare” che lo spettatore ne ha di fatto, decretato, regalando a “Pane e tulipani” un successo impensabile e non programmabile. Ecco, in questo iato, in questo conflitto tra il “finish” dello spettatore, che con il suo “gioco d’amore” con il film (di cui si è impossessato, passandolo di persona in persona in un meccanismo imprevedibile del “passaparola”) lo ha in parte anche “modificato”, e l’apparato creativo dell’autore, in qualche misura spodestato dal suo ruolo, depredato del suo film.
Certo Soldini non perde occasione per ribadire che il progetto di “Brucio nel vento” nasce addirittura prima di “Pane e tulipani”, ma la sensazione è che da parte del regista milanese ci sia stata una precisa volontà di segnare il passo con il suo film precedente, di non farsi “inghiottire” da ciò che il pubblico vuole, dai meccanismi infernali del ciclo produttivo/distributivo del film.
Questo è un discorso che richiederebbe riflessioni ulteriori, perché, al di là del valore di quest’ultima fatica di Soldini, evidenzia in maniera fin troppo esplicita la difficoltà dei cineasti italiani a “lavorare” sul “gioco produttivo dell’immaginario”, dal quale o si ritrovano schiacciati o rifuggono.
E “Brucio nel vento” sembra proprio una metafora della fuga del suo autore dalle insidie del cinema commerciale, quasi un voler a tutti i costi (anche e soprattutto economici) voler ribadire la propria estraneità “all’inferno” del cinema come prodotto mediale di massa.
Ed ecco che Soldini, sulle punta dei piedi, torna al suo cinema “silenzioso”, spingendo con forza la matrice “autoriale“ addirittura abbracciando con forza e passione un’opera letteraria (qui il romanzo “Hier” di Agota Kristof), che lo conduce pericolosamente lungo le coordinate del cinema “d’autore europeo”, tristemente noto. Fortunatamente Soldini rifugge anche dalle star internazionali da coproduzioni europee che avrebbero affogato il suo film, e sceglie due interpreti bravi e sconosciuti che sanno tracciare, in un mélo gelido e raffreddato nei sensi, il profilo di una storia d’amore tra le più folli e insensate degli ultimi tempi, e perciò a suo modo affascinante e perversa.
Ma mentre la ”Storia “ racconta, come in un forte melodramma hollywoodiano, la vita di Tobias, dall’infanzia misera con la giovane madre prostituta, al padre segreto che a un certo punto accoltella, prima di fuggire in un altro luogo e cambiarsi il nome e la vita; la “storia” emozionale di “Brucio nel vento”, forse anche perché soffocata da una voce fuori campo che sembra quasi voler a tutti i costi spiegare, o peggio ancora “descrivere” ciò che viene mostrato (ed è un peccato mortale farsi sedurre a tal punto dal romanzo che si insinua dentro le pieghe del film, le cui immagini raggelate invece stordiscono la visione, come in un incubo irreale), insomma la storia emotiva del film spegne i sentimenti, annacqua i bruciori delle passioni, non sa trasformare il mélo in un noir dei sentimenti, preferendo non inabissarsi nei labirinti della passione e, curiosamente, qui Soldini devia dal romanzo, così pedissequamente amato e seguito, per lanciare quasi un segnale di voluto ottimismo…
E se Soldini fosse prigioniero del suo cinema e non riuscisse a sentire la voglia di libertà, di gioco e divertimento che i suoi ultimi due film hanno rappresentato (perché non dimentichiamoci che “Le acrobate”, pur non essendo una commedia come “Pane e tulipani”, ne anticipava ritmi, luci e movenze) e che inevitabilmente sembra voler uscire da dentro di lui?
Insomma “Brucio nel vento” è figlio di un conflitto, da un lato “razionale”, quello appunto di non farsi ingabbiare da quello che tutti si aspettano da te, dall’altro “emozionale”, di un cineasta che sembra aver trovato in una leggerezza di tocco una sua nuova dimensione, ma che è come se avesse paura ad abbandonarvisi. E il film ne risulta inevitabilmente spezzato, vera e propria “anima divisa in due”, tra l’orrore/incubo della vita così com’è e il godimento /piacere di come dovrebbe essere (e la grandezza di Soldini è stata, ultimamente, proprio di raccontarci questa seconda ipotesi).

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